Riforma Onu sofferto cammino

Onu
Nonostante l’attenzione fosse su Wall Street, all’apertura della 63ª Assemblea generale dell’Onu capi di Stato e personalità hanno auspicato una riforma dell’organizzazione. Paradosso o necessità improrogabile? Certo, lo scenario mondiale è sofferente per l’assenza di una governabilità condivisa, mentre gli indici di sviluppo sono in calo – recita il linguaggio Onu – e la prevenzione dei conflitti resta inadeguata. Tradotto, significa, povertà in aumento e impotenza di fronte alle guerre. Da una densa agenda dei lavori, colgo due temi: nuove regole per il Consiglio di sicurezza e migliore uso delle risorse finanziarie. Un segnale forte! Sostengo da sempre che la riforma dell’Onu, se non affronta il nodo del Consiglio di sicurezza, è destinata a fallire. È lì il vero problema, perché è lì il potere reale, come scrissero i fondatori nell’art. 24 dello Statuto: I membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale . Gli Stati, dunque, tutti consapevoli che il Consiglio agisce in loro nome. O dovrebbe. Tra le proposte di cambiamento, due mi sembrano essenziali: l’adeguata rappresentanza degli Stati nelle decisioni; l’azione di diplomazia preventiva per garantire la mediazione nei conflitti o la loro coerente soluzione. Sarebbe bello dimenticare il potere di veto, i membri permanenti del Consiglio e lasciar spazio alla responsabilità di proteggere le popolazioni, alla riconciliazione preventiva e alla ricostruzione postconflitto. Come pure una più stretta collaborazione con le organizzazioni regionali, visto l’intensificarsi di missioni militari dell’Unione europea, dell’Unione africana o della Nato, sorte tutte da mandato Onu. E poi una razionale gestione dei diversi organismi interni, in modo che ciascuno assicuri risposte specializzate e coordinate alla crisi alimentare, ai cambiamenti climatici, alla tutela e promozione dei diritti fondamentali in ogni situazione. Un percorso atteso da anni, che ora sembra percorribile. I fatti e le regole internazionali mi dicono che il processo iniziato richiede i suoi tempi, una generale condivisione e, soprattutto, sofferenza. Un’idea, quest’ultima, che alimenta una mia convinzione, riportandomi alle parole pronunciate nel marzo 1997 da Chiara Lubich al Palazzo di Vetro: è la sofferenza che dona all’umanità la sua più alta dignità: quella di sentirsi non solo un insieme di popoli, ma un solo popolo, abbellito dalla diversità di ognuno e custode delle differenti identità.

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