Respirarono più musica che aria

Pergolesi e altri compositori scomparsi, come lui, prima del tempo. Le esistenze intense e fugaci di geni resi ”eterni” dalla loro musica

Un libro insolito e appassionante edito da Vololibero, Eterni. Vite brevi e romantiche di grandi compositori, mi ha riportato alla memoria una visita fatta tempo fa a Pozzuoli, sulle tracce del grande Pergolesi. Uno che, insieme ad altri eccelsi musicisti delineati in questo volume da Elisa Giobbi, ha vissuto un destino di tormenti fisici ed emotivi senza poter raggiungere i quarant’anni.

Perché Pozzuoli? Perché Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi, nato a Jesi in provincia d’Ancona nel 1710 e morto a soli 26 anni nel 1736, fu ospite dei frati cappuccini di questa cittadina dei Campi Flegrei: l’ultima “spiaggia” dove, grazie al clima mite e all’aria salubre, sperava di trovare giovamento al male che lo consumava fin da bambino, la tisi, e dove anche compose il suo “canto del cigno”: quel sublime Stabat Mater che affascinò lo stesso Mozart.

Con in mente appunto questo celebre pezzo che riveste di malinconiche armonie il testo attribuito a Jacopone da Todi, mi ero recato sull’acropoli puteolana del Rione Terra dove sorge la cattedrale dedicata a San Procolo, luogo di sepoltura di Pergolesi. Eretta sopra un tempio di età augustea e gravemente danneggiata da un devastante incendio nel 1964, all’epoca della mia visita era ancora chiusa per restauri (di recente è stata riaperta al culto). In realtà inutilmente avrei cercato la tomba: infatti il compositore marchigiano, in quanto straniero e povero, era stato sepolto lì, ma nella fossa comune. Identico destino sarebbe toccato poi anche a Mozart.

Mi restava solo da fare una puntata alla chiesa dei Santi Francesco e Antonio, dove, nell’annesso convento francescano, Pergolesi era giunto nel febbraio del 1736: troppo tardi ormai, giacché morì il 16 marzo seguente, pochi giorni dopo aver ultimato l’innovativo Stabat Mater commissionatogli da una confraternita napoletana in sostituzione della precedente versione di Alessandro Scarlatti. Datato tra il Trecento e il Quattrocento, il complesso monastico si aggrappa ad una delle colline che digradano verso il mare, con magnifica vista sul golfo puteolano. Nella chiesa, a ricordo del musicista jesino, è il monumento funebre trasferito dalla cattedrale alla destra dell’altar maggiore nel luglio del 1987, in occasione delle celebrazioni per il 250° anniversario della sua morte.

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Commenta Elisa Giobbi in questa sorta di Spoon River della grande musica: «Nella sua breve vita Pergolesi compose opere serie e buffe, intermezzi, oratori, cantate, musica sacra e strumentale, ma furono La serva padrona e lo Stabat Mater ad assicurargli fama imperitura: la prima è il capolavoro del teatro comico, che divenne in seguito il modello di questo genere musicale, seguito poi da musicisti del calibro di Mozart e Rossini. Lo Stabat Mater, la sua ultima composizione, è considerato uno dei capolavori assoluti della storia della musica. Vincenzo Bellini lo definì “il poema del dolore”; Gioacchino Rossini pianse di commozione la prima volta che lo ascoltò. L’incanto ammaliatore di questa opera emana tuttora, a distanza di tre secoli dalla sua creazione, è conseguente a un paradosso prima di tutto musicale e artistico, ma in particolare umano ed esistenziale. L’arte e l’umanità di Pergolesi incarnano la sintesi ideale tra sentimenti di natura diversa: dolore e delicatezza, sollievo e compassione, pena e armonia. In questo complesso quadro, le apparenti contraddizioni esistenziali non sono combattute ma al contrario sembrano venire accolte, aprendo spiragli luminosi su prospettive di speranza inaspettate».

Assieme alla parabola di Pergolesi, l’autrice racconta – senza trascurare le pecche fisiche e morali che ne hanno accompagnato il genio – vita e opere di Purcell, Mozart, Schubert, Bellini, Mendelssohn, Chopin, Bizet e Gershwin, offrendo testi di taglio giornalistico ma documentati, talvolta perfino con qualche tocco di “giallo”: è il caso della morte di Bellini, avvenuta in circostanze misteriose. Un post scriptum è dedicato ad un gigante contemporaneo del pianoforte: il francese Michel Petrucciani, alto solo 99 centimetri a causa di una malattia incurabile delle ossa. Questo autodidatta morto nel 2005, che per arrivare al pedale era costretto a usare una speciale prolunga in legno, ebbe a dire una volta: «L’unico vero talento consiste nell’amare così perdutamente la musica da suonare dieci ore al giorno e avere l’impressione di averlo fatto per dieci minuti». Nel 1791, circa due secoli prima, Mozart aveva scritto: «Continuo, perché comporre mi stanca meno del riposo».

Con lucidità, senza compiacimenti e, tuttavia, con affetto, la Giobbi fa vivere di nuovo questi personaggi che hanno attraversato l’esistenza respirando più musica che aria. E proprio la loro musica, alla fine, ha vinto: è ancora qui con noi e, quindi, lo sono anche i suoi artefici. Li sentiamo vicini, soffriamo, ci esaltiamo con loro e ci troviamo a condividerne debolezze e amore per la vita.

 

 

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