Raquel, una vita capovolta

Argentina di Rosario, di professione medico, sensibile all’impegno politico‑sociale, racconta la sua “piaga” nascosta
Rosario

Incontro la dottoressa Raquel Bessio nel suo appartamento della città di Rosario. Da quel quindicesimo piano, mentre insieme sorbiamo il mate, ben nota infusione argentina, si può ammirare la maestosità del fiume Paraná, così largo da sembrare un mare, con le sue isolette verdi. Certe città, come Rosario in Argentina o Montevideo in Uruguay, a differenza di Buenos Aires, sanno dialogare con i loro fiumi. Buenos Aires, invece, ha messo il fiume alle sue spalle; e lui ricambia, ignorandola.

 

L’assistenza ai malati è un fatto costitutivo di Raquel, del suo “essere-al-mondo”, come direbbero gli esistenzialisti. «Amavo tanto il mio lavoro d’infermiera, ma a un certo punto della mia vita ho deciso di intraprendere gli studi di medicina», esordisce. Subito dopo spiega la sua attività presso il servizio medico per i pensionati, in un Paese dove la sanità pubblica è usata solo dai poveri, esclusi per motivi di costo dalla medicina privata.

 

Raquel è fortemente legata a un partito politico. Quando affronta certi temi che le fanno vibrare le fibre più intime, lei si appassiona: «Sono sempre stata alla ricerca nel campo politico, data la mia sensibilità sociale. Fa piacere vedere giovani impegnati, persone indipendenti, con idee, che lavorano nei quartieri più umili». Il sogno di Raquel è quello di “democratizzare” la democrazia: «Per me questo significa approfondire la fraternità».

 

Ha rapporti stretti con dirigenti della comunità ebraica e con tante persone che si dichiarano agnostiche e anche atee: «Abituata a muovermi tra persone che non hanno credenze religiose, soltanto quando me lo domandano espressamente, e non posso evitarlo, dichiaro a parole la mia fede». Lei che ha a che fare tutti i giorni con molti pazienti terminali è particolarmente attenta affinché questi possano percepire che Dio li ama persino nella prova del dolore e della morte. «Sono convinta che i malati gravi debbano sentire l’amore di Dio attraverso la qualità del mio rapporto con loro».

 

Raquel è stata segnata a fuoco da un’esperienza particolarmente traumatica, che solo dopo lunghi anni ha potuto condividere con gli amici del movimento. «Ai tempi della dittatura militare, ho avuto una sorella e un cognato desaparecidos. Mi aveva causato grande dolore sapere della loro scelta per la lotta armata, cosa che non potevo condividere. Molto tempo dopo abbiamo saputo che erano stati trasferiti presso un centro clandestino dell’esercito dove è nata mia nipote, che oggi ha 32 anni. Poco dopo la sua nascita, la neonata è stata lasciata da sconosciuti davanti alla porta di casa dei miei genitori. Di mia sorella e di suo marito non abbiamo saputo mai più niente».

 

È questa piaga intima sempre presente, assieme a tante altre storie di malattia, di povertà, esclusione e ingiustizia, a ferire Raquel. Ma come fa a mantenersi in piedi di fronte all’avversità e, sempre tanto attiva nel sociale e nell’ambito professionale, ad essere allo stesso tempo così sensibile alla vita spirituale?

 

Un momento decisivo è stato quando ha conosciuto la spiritualità dei Focolari: «Ero in una grande crisi esistenziale. Quando ho sentito parlare del mistero di Gesù crocifisso e abbandonato, tutto in me si è capovolto. Sono tornata alla mia città pensando che fino a quel momento avevo trascinato la vita. Da allora in poi avrei guardato tutto con altri occhi. Poi ho capito che ciò significava vedere le cose dalla prospettiva dell’abbandono, il mistero più grande dell’amore di Dio. In quel momento è nato in me qualcosa di totalmente nuovo: i dolori, i più svariati, continuano a essere presenti; succede a me come a chiunque, ma so che posso riconoscerlo e amarlo così come lui mi si è mostrato».

 

«Un giorno – prosegue – sono stata invitata a riflettere sull’itinerario della formazione interiore. Partendo dai testi proposti, ho scritto che io non mi sentivo formatrice di nessuno nel senso convenzionale della parola. Non lo sono nel mio lavoro, nella mia vita personale, neppure nella mia partecipazione civile e politica. Sarebbe una presunzione credere che posso formare qualcuno. Penso che non sia bene neppure desiderarlo; oppure sì, purché nel senso di essere vicina ad ognuno per accompagnarlo e, qualche volta, contemplare la realizzazione di un disegno di Dio negli altri.

 

«Soltanto in questo senso potrei sentirmi chiamata a formare coloro che il Signore mi mette a fianco per condividerne il cammino. Credo che solo lui abbia un programma di formazione che è un disegno d’amore. Nel lavoro con i malati terminali, più che mai mi tocca profondamente l’esempio di Chiara Lubich quando parla di un ricamo del quale solo apprezziamo il rovescio, ma che alla fine conosceremo dall’altra parte, dove rifletterà il disegno d’amore che il Padre ha pensato per ognuno di noi, unico e irripetibile».

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