Rapita alla vita

Nella Sulmona di Ovidio. Una testimonianza nascosta della “pietas” di due madri di stirpe peligna, l’antico popolo italico che abitò questa zona d’Abruzzo

Prima della conquista romana Sulmona era uno dei centri principali dei peligni, popolo italico di lingua osco-umbra stanziatosi nel I millennio a. C. in quella conca dell’odierno Abruzzo, coronata dalla catena appenninica, nota come Valle Peligna. Sto girovagando per il centro storico di questa che fu la patria di Publio Ovidio Nasone e ora… anche dei confetti! La statua bronzea del grande poeta augusteo l’ho ammirata poco fa in piazza XX Settembre, pensierosa sul suo piedistallo: medita forse, dall’esilio di Tomi (nell’attuale Romania) un ritorno impossibile? Tratto dal suo famoso emistichio «Sulmo mihi patria est», l’acrostico  S.M.P.E. campeggia sullo stemma civico dei principali edifici.

I confetti, invece, per i quali anche è rinomata nel mondo la cittadina abruzzese, li incontro ad ogni passo nei negozi lungo il corso Ovidio, in artistiche coloratissime composizioni: bianchi per il matrimonio, la prima comunione e la cresima, azzurri o rosa per il battesimo, verdi per il fidanzamento, rossi per la laurea e variopinti per le feste di compleanno. Confetti per tutti i gusti e tutte le occasioni, continuano una tradizione qui documentata a partire dal XV secolo, ma che risale all’antica Roma.

Bella e vivace mi appare Sulmona, ricca di antiche chiese e nobili palazzi. Il suo gioiello: il plurisecolare complesso della SS. Annunziata, sintesi mirabile di gotico, rinascimento e barocco. Ma ancor più ricca d’arte e monumenti essa doveva essere in passato, quando il suo nucleo urbano non recava ancora le ferite dei ricorrenti fenomeni sismici. Memorabile per i suoi effetti disastrosi il terremoto della Majella del 1706.

Uscendo un po’ fuori dal giro turistico consueto, imbocco via Ercole Ciofano, una stradina silenziosa che promette bellezze nascoste. E in effetti anche le case più modeste dell’antico centro appaiono spesso nobilitate da finestre in pietra intagliata e da frammenti scultorei di epoca classica, resti di un passato illustre. Come la lapide sepolcrale romana con scena di caccia inserita nel cantonale di sinistra di una dimora gentilizia, quella dei baroni Tabassi. Colpito dall’armonioso portale in pietra a sesto ribassato, un tipo diffusosi in Abruzzo e nel Napoletano al tempo in cui regnava la casa di Durazzo, decido di far qui una sosta. Sopra l’archivolto due scudi con gli stemmi di famiglia, a destra l’iscrizione in caratteri teutonici: Mastro Petri da Como fece questa porta A.D. 1439. Una tabella m’informa su questo storico edificio apparentemente disabitato.

In gran parte distrutto dal citato terremoto del 1706, sulla facciata ha intatti solo il portale e una bifora che sembra uscita dalla mano di un cesellatore, tale è la ricchezza e delicatezza degli intagli della pietra: l’unica rimasta di una serie di finestre analoghe al piano nobile.

Attraverso l’ampio androne (sulla volta è dipinto uno scudo gotico sormontato da un elmo) e mi trovo in un cortile lastricato in pietra bianca sul quale si affaccia la loggia sovrastante; di fronte, sorretto da tre arcate, corre un ballatoio di raccordo tra due corpi laterali dell’edificio, che nasconde un giardino interno. Nell’arcatella centrale è ricavato un vecchio pozzo (asciutto). Ad attirare la mia attenzione sono sei lapidi funerarie romane, murate sotto l’arco di sinistra: per quanto sono annerite, sarebbero indecifrabili senza l’aiuto di un’altra tabella.

Nella terza da sinistra due donne, la domina e la sua schiava, piangono la figlioletta di quest’ultima, Scoperius, prestandole poi la parola. Ecco il testo tradotto dal latino: «A Scoperius/di XI anni/Vezia Natale/e Vezia Prima/posero./Se ci fu mai fanciulla strappata/alla vita da fato crudele/certo questa fui io cara alla/padrona che dottissima mi insegnava tutte le arti./Rapita alla vita/il mio nome si legge ora/ su questo titolo funerario»

La tradizione peligna, vengo a scoprire, assegnava alla donna un ruolo fondamentale e ne esaltava le virtù prima ancora di assumere l’insopprimibile funzione familiare. La dignità domestica non era mai disgiunta da profonda pietas, e a partire dalla puerizia nessun elogio pareva sufficiente. Ben lo esprime questa testimonianza di un’epoca remota che però riesce a trasmettere un sentimento universale, di sempre: il dolore per un distacco («rapita alla vita…»).

Nel tessere le lodi della piccola defunta – recita la tabella – «si associano la madre naturale e la madre adottiva, appartenenti ad un gruppo peligno. Nella dipartita di una persona cara prevale il sentimento della protesta verso l’ingiusta sorte. Subentra poi la rassegnazione: il tempo distruttore non ne cancellerà l’immagine». Di tante vicende che hanno modellato il volto di Sulmona ecco cosa portarmi via: il ricordo di questa epigrafe intrisa di composta mestizia. L’avesse conosciuta Ovidio, non ne avrebbe tratto ispirazione per un carme?

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