Quei ragazzi dell’isola

Il percorso verso la libertà dei giovani dell'istituto penale e della comunità pubblica di Nisida. A colloquio con due educatori
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Ascolto Pina e Sandra e mi chiedo: per quanti ragazzi e ragazze di Nisida il forzato soggiorno in questa splendida isoletta del golfo di Napoli potrà risolversi in opportunità di riscatto sociale, in avvio ad una vita ben diversa da quella condotta prima? Per la verità, dalle testimonianze di alcuni di loro (vedi box) risulterebbe più la nostalgia per la libertà o per cose il cui possesso li ha portati a delinquere. E può meravigliare che per qualcuno proveniente dai vicoli o dalle periferie degradate della metropoli partenopea quest’angolo incantevole del golfo risulti soffocante. Ma quando non si hanno ancora ben chiari quei valori capaci di costruire e dare senso all’esistenza, si può scambiare per libertà ciò che rende schiavi, e per schiavitù invece il periodo in cui imparare faticosamente a maturare come cittadini. Sono questi gli argomenti di conversazione con Pina e Sandra, che oltre ad essere educatori, sono legate da vincoli di parentela e dagli ideali dei Focolari. Pina, qual è stato il tuo impatto con la realtà dell’isola? Prima di arrivare qui avevo dei pregiudizi nei confronti di chi finisce in carcere. Solo quando ho cominciato a conoscere il vissuto drammatico di questi ragazzi, ho capito che in realtà il loro comportamento antisociale aveva alle spalle un rapporto conflittuale con la madre o col padre, una carenza di affetto. A volte mi è capitato di sentirmi dire da uno di loro: Mia mamma non mi ha mai detto di no. Ecco, erano mancati quei no al momento opportuno da parte dei genitori, quei punti fermi che determinano le scelte di vita. Purtroppo, con gli esempi negativi ricevuti nella cerchia familiare e delle amicizie, per loro in un certo senso la strada era segnata fin da piccoli. Qual è il compito di un educatore? L’istituto penale accoglie ragazzi e ragazze sia in custodia cautelare che definitivi. Durante il periodo di detenzione li accompagniamo in un percorso di presa di coscienza dei propri trascorsi e di responsabilizzazione di fronte a ciò che li aspetta, una volta fuori. Inoltre dobbiamo darne relazione al magistrato che dovrà giudicarli o a cui chiedere dei benefici nel caso di condanna definitiva. A differenza dell’assistente sociale, che ha un rapporto privilegiato con la famiglia, noi educatori ci concentriamo più sul ragazzo. Che tipo di minori ospita Nisida? Ragazzi cresciuti senza il senso del valore della persona e della vita, che provengono da un mon- do dove conta apparire, avere soldi. So di alcuni che soltanto facendo la vedetta per avvisare quando arriva la polizia, guadagnano anche 100 euro al giorno; e di altri che, spacciando droga, in un anno ne intascano 360 mila. Stando così le cose, chi glielo fa fare di sudare per un misero stipendio in una città difficile come Napoli? Una volta si rubava principalmente per fame, per aiutare la famiglia in miseria. Ora non è quasi più questo il motivo: si ruba per avere i vestiti firmati, le scarpe di una certa marca, la moto, il telefonino all’ultima moda: tutte cose senza le quali non sei nessuno in un contesto sociale dove l’essere è stato sostituito dall’avere. Descrivimi una giornata tipo nell’isola. L’ozio, ovviamente, è bandito, sia per inculcare come dovrebbe scorrere la giornata normale di un adolescente e sia perché attraverso la formazione professionale emerge la coscienza di possedere delle capacità: realizzare, ad esempio, un presepe o un oggetto di ceramica, confezionare un indumento o preparare un dolce. Anche così si cerca di elevare la propria autostima e far passare il messaggio che, se vogliono, la loro vita può essere fatta di altro che di reati. Si comincia con la sveglia alle 7,30. Prima di colazione devono lasciare la loro stanza in ordine. Dopo si dedicano ad attività didattiche: abbiamo un corso di alfabetizzazione primaria, rivolto prevalentemente agli extracomunitari, e uno di scuola media per studenti lavoratori. A mezzogiorno vanno a mensa; segue una pausa in cui riposano o guardano la televisione. Dalle 14 alle 17 li vediamo impegnati in attività di formazione professionale (laboratorio di ceramica, falegnameria, manutenzione del verde). Alle 17 la merenda e poi sport: pallavolo per le femmine, calcio ma anche rugby e basket per i maschi. A proposito del rugby, che insegna ad essere coraggiosi, leali, costan- ti: secondo me fa molta presa sui ragazzi per il semplice motivo che richiede abilità da loro normalmente utilizzate per commettere rapine o altri reati, cioè la scaltrezza, lo scatto, la velocità, qui invece incanalate in una attività positiva. Alle 19 cena, poi rientro nelle stanze. Normalmente la sera scrivono ai familiari, curano l’igiene personale o guardano la televisione. In questo percorso, puntiamo a far rispettare le regole basilari di una convivenza; non tanto per la regola in sé, ma perché – e qui c’è la valenza educativa – l’osservanza di una regola comporta rispetto del prossimo e di sé stessi, impegno a edificare la propria persona. Quali soddisfazioni sono legate al tuo compito specifico? Se ti riferisci al risultato di non commettere più reati, non c’è da stare molto allegri perché c’è una percentuale molto bassa che si riabilita realmente. Piuttosto gratifica l’aver stabilito un rapporto vero, nel quale l’altro non si sente giudicato. È che l’attuale sistema penale minorile andrebbe ripensato. Vedi, nell’universo di questi ragazzi circola una serie di figure che si dedicano a loro: l’educatore, lo psicologo, il medico, il cappellano, il volontario… Ma il giorno in cui escono dal carcere perché hanno espiato la pena, nessuno più se ne occupa, e quindi si ritrovano nella situazione di prima, se non addirittura peggiore. Tu, Sandra, cosa aggiungeresti? È vero, c’è qualcosa che non funziona. Si dovrebbe intervenire prima già a livello familiare perché non c’è nulla di più triste di un ragazzo che, perché ha vissuto e conosce solo esperienze negative, non ha più speranza. Qui è come se su di lui si accendessero i riflettori dell’affetto e della cura, ciò che gli è mancato; ma quando esce – e c’è pure chi non lo vorrebbe, perché ha capito la differenza – trova il buio totale. Da quanto tempo lavori qui? Dal ’99. Dopo un anno sono passata al diurno, un servizio innovativo che nel 2003 si è trasformato in comunità pubblica per ragazzi in attesa di giudizio. Rispetto all’istituto penale, è una struttura meno rigida, una specie di casa famiglia dove non esistono misure coercitive come sbarre, porte chiuse. Naturalmente i ragazzi – nove, affidati a quattro educatori – hanno l’obbligo di non allontanarsi dalla nostra sorveglianza. Io oltre a fare l’educatore ho anche il ruolo di vicedirettore all’interno della comunità: una posizione che mi permette di fare da filtro, di sentire le due campane. Il nostro metodo educativo è quello dell’accoglienza e dell’ascolto. Per ognuno dei ragazzi elaboriamo un progetto personalizzato che propone anche delle strade da seguire una volta conclusa la situazione penale, come un corso di formazione esterna o un tipo di lavoro. La loro giornata è simile a quella dell’istituto penale, però offre più scelta. Il bello della comunità è che ti puoi inventare le più svariate iniziative, hai meno vincoli: ad esempio, accompagnare i ragazzi a vedere qualche mostra o spettacolo. Con loro, immagino, non sarà sempre automatica la risposta… Certo! Ma non lo è neanche con i nostri figli (io ne ho cinque), difficile è il lavoro educativo in sé. Soprattutto adesso che i miei figli si affacciano all’adolescenza, mi rendo conto che tanti atteggiamenti contro di questi ragazzi non dipendono tanto da situazioni familiari particolari, ma proprio dalla loro età. I nostri, ovviamente, vivono le relative problematiche all’ennesima potenza perché quasi tutti provengono da famiglie disastrate, dove l’illegalità l’hanno respirata da quando erano piccoli. Con loro intratteniamo rapporti molto familiari, ma senza essere accondiscendenti: uno sbaglio è sempre uno sbaglio. Per esempio, se un giorno uno non ha voglia di svolgere il suo programma, noi cerchiamo di convincerlo come si fa con un figlio, facendogli presente le conseguenze negative del suo rifiuto. E le famiglie, come vengono coinvolte? Siccome i tempi medi di permanenza in comunità sono di soli quattro o cinque mesi, è importante che fin dall’inizio la famiglia collabori nel progetto riguardante il ragazzo; diversamente il nostro intervento è destinato ad essere vanificato dal contesto sociale. I colloqui con i genitori sono frequenti, li convochiamo quando occorre. Talvolta il rapporto con loro continua anche dopo che il ragazzo è uscito, per aiutarli a risolvere certe difficoltà. Nel progetto educativo intervengono anche altri dall’esterno? Sì. Poiché la trasmissione di valori e di responsabilità passa più facilmente attraverso i ragazzi della stessa età che non attraverso il rapporto adulto-minore, noi favoriamo il contatto dei nostri con altri coetanei sani. Da tempo ormai lavoriamo con gruppi scout i quali in estate si fermano per un periodo qui a Nisida, proprio come per un campo scout. Tra giochi, sport, gite in barca e passeggiate naturalistiche, i nostri sperimentano un altro modo di stare insieme, fatto di rispetto e solidarietà fra sessi diversi; e in molti questo lascia un segno. Ma anche per gli stessi scout è una sorpresa imbattersi in ragazzi che, al di là dei trascorsi burrascosi, hanno sogni ed aspirazioni come loro. Si incontrano così, con reciproco arricchimento, due mondi molto diversi per certi aspetti, ma per altri anche simili. C’è un limite contro il quale si scontra il vostro lavoro educativo? È costituito soprattutto dal tempo a disposizione, dal non avere un gruppo stabile: noi sappiamo quando un ragazzo entra ma non quando uscirà: dipende dall’esito del processo. Per cui a volte il nostro lavoro viene interrotto sul più bello. Ma se non ci si fa scoraggiare da questo limite e si valorizza l’attimo presente, i risultati non mancano. DIRETTO’, IO ANDRÒ IN PARADISO Pino Ciociola, giornalista inviato di Avvenire e scrittore, per diversi giorni ha voluto condividere la vita dei ragazzi e ragazze detenuti a Nisida e di quanti se ne prendono cura. Da questa esperienza intensa e sofferta è nato Diretto’, io andrò in Paradiso. Storie dal carcere minorile di Nisida, edito da Ancora: un affondo struggente su una realtà, quella del carcere, che in molti casi può essere una necessità, ma che non va intesa – scrive nella prefazione don Luigi Ciotti -, come la prima e unica risposta ad un malessere sociale, come invece accade. Un invito a scommettere sulla vita e sul futuro di questi ragazzi, aiutandoli a dispiegare le ali ripiegate che tanti di loro hanno sotto i vestiti.

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