Quando le porte si aprono

Mi chiamo Guido, sono sposato, ho due figlie e sono operaio in pensione. Sono stato alcolizzato e per qualche anno in carcere. Ricordo bene la disperazione di uno quasi sempre ubriaco, violento e bestemmiatore. Era una vita d’inferno sia per me che per i famigliari. Comincia così il racconto di Guido, e nulla in esso lascia indivinare una vita poi incredibilmente trasformata. Eppure il miracolo è avvenuto. Con la pacatezza di chi ha fatto l’esperienza di perdonarsi, Guido racconta ancora di quel tempo di solitudine, di disperazione, di odio per il mondo fuori, di volontà di spezzare catene di risentimento antico. Trema nel ricordare che comunque la speranza rinfrescava quel deserto; in fondo un barlume era ancora acceso… Poi quella porta aperta sulla stanza. Era aperta sull’atto più sconsiderato che la moglie potesse fare: pregare. In Guido un moto di stupore infastidito: là nella stanza lei pregava l’aria, mentre lui era nei guai fino al collo! Com’era possibile? Ma quel gesto aveva ormai risvegliato l’amore per la moglie, per le figlie, la voglia di giocarsi e di riscattarsi. O forse nulla di tutto questo. Forse era ancora disperazione, per non aver saputo amare abbastanza da poter ricominciare. E Guido ricomincia: entra in ospedale per un recupero, ma il dubbio e la disperazione attanagliano ancora il cuore e la mente. In attesa di un letto, gli si affianca uno sconosciutto che lo saluta e lo chiama per nome. Mi disse: Credo che, per guarire i tuoi mali, tu debba avere fiducia in te stesso e fede in Dio. Cercai in seguito questa persona per ringraziarla, ma tutto fu inutile. La mia reazione fu immediata: Ma dov’è questo Dio di cui tu mi parli, e se esiste perché non mi aiuta?. Era chiaro che in me non vi era un minimo di umiltà, tutto mi era dovuto. Quelle parole, tuttavia, mi rimasero dentro, nel cuore e nella mente. Una sera mentre passeggiavo nel giardino dell’ospedale, proprio esse mi indussero a fare un inventario della mia vita, che trovai così avvilente e deludente da mettermi a piangere, come mai avevo fatto in vita mia. Mi sentii osservato e cercai di isolarmi entrando nella prima porta che mi trovai davanti: era una chiesetta, vuota. Capitano nella vita eventi che non si dimenticano più, al punto da conservare la memoria anche delle percezioni che hanno accompagnato quel momento. Per qualche secondo non vidi nulla, se non dei raggi andare in tutte le direzioni. È l’effetto che fa quando si osserva una luce con le lacrime agli occhi. La disperazione mi tolse la forza nelle gambe, impedendomi di sedermi in una sedia; mi lasciai cadere lungo la parete. Lo sguardo cadde sul Crocefisso, rimasi lì per qualche minuto. E pensare che prima di quel momento vedere un Crocefisso e vedere una sedia era la stessa cosa. Ma quel giorno non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle ferite delle mani e dei piedi di quell’Uomo in croce. Mi vennero in mente alcune cose che mia madre m’insegnò da bambino. Volevo pregare, dire il Padre Nostro, ma appena pronunciai la parola Padre mi fermai a riflettere sul suo significato. E lì feci l’ennesima accusa al Signore: Ma come? Tu dici di essere Padre di tutti, che tutti siamo tuoi figli, perché non mi aiuti? Perché mi abbandoni e mi lasci morire?. Mi sentivo veramente solo. Dentro, però, Dio mi stava cambiando profondamente: fu come dare le dimissioni da ciò che ero stato fino a quel momento per abbandonarmi solo alla sua grazia. Ricordo una preghiera: Signore, da solo ho provato, non ce la faccio, abbi pietà, aiutami ad essere una persona normale. Andai a dormire. Quella notte qualcosa era successo. In me, vi era una forza di volontà mai avuta fino a quel momento. Cominciai col non assumere sostanze alcoliche e così è stato fino ad oggi, e sono passati più di vent’anni. Gli anni passano per Guido e per la sua famiglia. Molte cose cambiano. Guido entra in un circuito di dono e gratuità che lo porta a sollevare la sofferenza di chi vive il carcere e la dipendenza dall’alcol. Poi una sera accade l’imprevisto che mette a nudo tutto, ancora una volta. Prima di una celebrazione eucaristica, Guido aveva raccontato della sua vita, affondando nel ricordo terribile del carcere e presentando come un dono delicatissimo e grave tutto il suo coraggio di ritornare a vivere dignitosamente per quella moglie che aveva visto piangere e pregare per lui. Poi un flash: qualcuno gli si era avvicinato e gli aveva fatto domande chiare, precise. Ammutolito, Guido aveva inseguito un ricordo: quel volto, quella voce, ripescata dalla memoria del tempo turbolento e crudele della prigione, era una ferita. Quell’uomo davanti a lui, con quelle domande, era una guardia carceraria, da cui era stato brutalmente malmenato. Non pareva possibile a Guido affrontare anche quel momento. Odio e sofferenza gli avevano invaso l’anima, come un ricordo atroce. Non sarebbe riuscito a perdonare da solo. Impossibile per un uomo che ha sofferto così, si diceva. Cosa fa un uomo di fronte all’odio che ritorna a rodere l’anima che solo chiede pace, ristoro, respiro nuovo? Prega che si allontani quel calice amaro. E invece l’uomo, capace di rievocare il risentimento, è lì dietro. E al solo pensiero ripiomba nella disperazione, perché è facile perdonare a distanza, se ci si sente forti. Ma qui l’umiliazione e la rabbia sono a portata di mano, dietro di lui. Aiutami, tu che sei Dio, tu lo puoi!. Lacrime rigano il volto di Guido, che si volta e vede la guardia piangere, mentre si incrociano gli sguardi. Possibile che tutto possa diventare ora semplice e sciogliersi in un gesto senza odio, né timore? Guido lo abbraccia allo scambio del segno di pace. Il tempo e lo spazio si annullano in quella fraternità ritrovata.

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