Quando la palla è ovale

Il rugby? Il modo migliore per tenere 30 energumeni lontani dal centro della città. Se la definizione, colorita e suggestiva, di Oscar Wilde, sottolinea la forza fisica richiesta dal rugby, essa non rende giustizia del fascino di una disciplina sportiva dal fascino particolare, assolutamente diversa da tutte le altre. E che molto ha da insegnare al mondo dello sport, e non solo a quello. Il rugby è prima di tutto un linguaggio, fatto di parole, di gesti, di riti, di tradizioni. È un codice di appartenenza ad un certo mondo e ad un certo modo di stare al mondo. Ma non per questo è una casta: è aperto a tutti e si sta aprendo sempre più, a giudicare dall’interesse sempre più diffuso fra i nostri ragazzini, e dall’enorme interesse suscitato dalla Coppa del mondo in corso in Francia. In un periodo in cui larga parte dello sport professionistico sembra in piena crisi, la gente si è resa conto che nel rugby, invece, prevalgono i valori. Sì, proprio i valori, una realtà altrove passata di moda: il rugby, giocato e visto, non è solo una fabbrica di emozioni uniche, forti, particolari. È opportunità di conoscenza di sé stessi e degli altri, è esplorazione dell’universo che ti circonda, è scontro ravvicinato con talenti e limiti propri ed altrui, è occasione di stringere rapporti. Chi ha giocato a rugby insieme a qualcuno avrà sempre qualcosa che lo unirà agli altri e che ricorderà finché campa. È facile spiegare perché il rugby crea legami più di ogni altra disciplina: è nella natura del suo gioco. Dentro la squadra: pensate alla mischia dove otto uomini sono legati, più che abbracciati, respirando e spingendo come fossero un sol corpo, come se remassero in una sola barca. Con la squadra avversaria: alla fine di tutte le partite, dalla Coppa del mondo fino agli amatori, non solo la squadra perdente rende onore ai vincitori facendoli scorrere fra le proprie fila, ma le squadre si ritrovano insieme in birreria. E fuori dal campo: i tifosi avversari entrano ed escono dallo stadio gli uni accanto agli altri, scherzando, sfottendosi magari, ma senza risse, violenze o cori razzisti. Ricordo a Roma un tifoso della Scozia, orgoglioso del suo kilt, intonare, accanto a me, a squarciagola l’Inno di Mameli con la nostra bandiera sulle spalle. Gli ignobili fischi alla Marsigliese ascoltati a San Siro nella sfida Italia- Francia di calcio testimoniano che non è usanza diffusa. In campo invece è sfida vera: il rugby è combattimento, aggressività lucida e solidale. Eppure, paradossalmente, è proprio la messa in gioco della propria forza fisica, che il rugby esige, a fare da deterrente alla violenza, altrimenti ogni partita scapperebbe il morto: regole (che qui sono leggi) precise e rispettate senza discussioni, grande sportività e ferreo autocontrollo verso ogni reazione violenta, agonismo e rispetto coniugati con spirito da veri gentleman. Nel rugby non si affollano tutti a discutere attorno all’arbitro, ma con lui parla solo il capitano: altrimenti si perdono dieci metri di campo e nel rugby sono un’enormità. Anche i cartellini rossi, quelli che cacciano dal campo per falli gravi, praticamente non vengono estratti quasi mai. Il cartellino giallo manda il giocatore a riflettere dieci minuti in panchina. La forza fisica non è però frenata o contenuta: è incanalata e messa al servizio del gioco di squadra. Solo così si va verso la meta da conquistare, portando quello strano pallone deformato in fondo al campo avversario, rispettando la regola di poterlo passare solo indietro, ma correndo avanti il più possibile. L’altra regola, quella sottintesa e condivisa, è quella di divertirsi tutti insieme. Fa bene allo sport vedere in questi giorni una squadra intera esultare per una meta segnata dopo averne subite già almeno 15, incoraggiate dall’applauso degli avversari. Anche i nostri azzurri hanno perso 76 a 14 contro i neozelandesi, ma le dichiarazioni dei nostri atleti rendono loro onore: Il bello è vincere, perder un po’ meno, ma le sconfitte fanno parte dello sport (Troncon) e Il bello dello sport è che c’è quasi sempre una seconda occasione (Bortolami). Del resto gli avversari non si erano per nulla presi gioco di loro. Nel rugby quasi nessuno si esalta più di tanto, ma di certo nessuno esce umiliato: la fatica è stata infatti uguale per tutti, la soddisfazione di aver messo almeno una volta l’ovale in meta premia la voglia di competere, il sale della vita che ha portato alla Coppa del mondo i fuoriclasse della Nuova Zelanda ed i simpatici portoghesi che schierano senza problemi anche un atleta non professionista che nella vita fa il macellaio. Eppure anche il Portogallo e la Namibia, definibili, senza alcuna offesa, squadre materasso, hanno un loro obiettivo: non subire più di 70-80 punti di scarto dalle grandi del loro girone. Così come hanno un obiettivo anche gli azzurri: non è quello di vincere la Coppa, ma il sesto posto. Eppure, stranamente, il Paese intero si sta stringendo con affetto attorno a loro: sarebbe così se l’Italia del calcio arrivasse sesta ad un Mondiale?

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