Prof di scuola

Tra difficoltà e impegno, ruoli e regole, buone pratiche e motivazione. Una sfida epocale, una vocazione, un puzzle che alla fine ha ancora senso.

La scuola, nel nostro Paese, è sempre al centro delle discussioni. Risorse scarse, qualità discontinua, riforme contrastate e professori, magari precari da anni, scoraggiati dalla difficoltà di insegnare. Eppure qui si gioca il futuro del Paese. Ne abbiamo parlato con alcuni insegnanti riuniti per un corso di dialogo e aggiornamento professionale, che aveva come titolo “Cambia…menti, La scuola italiana e le sfide della globalizzazione”.

 

Giuseppe Provenzale, scuola professionale, matematica, Treviso: «La scuola è fatta soprattutto da ragazzi. Non si può quindi ridurre la loro presenza a due rappresentanti nel consiglio di classe, di fronte a oltre dieci insegnanti e due genitori. I ragazzi si sentono a disagio e non riescono a esprimersi adeguatamente. I programmi dovrebbero essere discussi con loro. Insegnare significa soprattutto conquistarsi gli studenti: se nel primo mese si perde tempo per guadagnarsi la loro stima in una relazione paritaria, con autorevolezza e senza autorità, questo poi permette durante l’anno di svolgere un programma effettivo e valido».

 

Cecilia Landucci, scuola media, Monte Porzio Catone: «Bisogna stabilire un rapporto di fiducia, ma basato su ruoli e regole da rispettare. L’importante è fornire agli studenti strumenti di base e valori, ma con creatività, altrimenti i ragazzi (e non solo loro) si stufano. Tenendo conto che ogni classe è diversa».

 

Mario Damiano, liceo, filosofia e storia, Napoli: «Cosa mette insieme le persone? Il raccontarsi. Quando entro in classe, comincio raccontando come ho preparato la lezione e ciò che mi ha colpito rispetto all’attualità. Siccome non abbiamo lavagne multimediali, con i ragazzi ci troviamo in Rete per domande sugli argomenti di studio. L’autorevolezza, comunque, nasce dalla stima. Recentemente ho ricevuto una mail: “Prof, mi sono laureato e l’ho citata durante la festa, perché lei nella mia adolescenza burrascosa è stato l’unico che ha avuto fiducia in me”».

 

Ester Lo Brutto, scuola materna, religione, Rho: «Per comunicare un argomento, devo prima costruire una relazione con i bambini partendo dal loro vissuto, facendoli raccontare e poi raccontandomi. Una settimana fa sono arrivata inquieta; i bambini se ne sono accorti, per cui ho loro raccontato, nei modi giusti, quello che mi era capitato. Hanno capito, perché mi sono fatta piccola con loro».

 

Roberto Borri, liceo, matematica, Latina: «Oggi gli studenti hanno grandi competenze, ma difficoltà a concentrarsi. È sempre più necessario utilizzare le nuove tecnologie. Quando si ha a disposizione un proiettore o una lim (lavagna interattiva multimediale) o il laboratorio d’informatica, la metodologia di insegnamento è diversa, i ragazzi hanno maggiore autonomia, mentre io devo lavorare a casa per preparare schede di sussidio. Le tecnologie ci portano avanti di 50 anni, ma dipende da come si usano. Purtroppo manca una “filosofia della tecnologia”».

 

Daria Jacopozzi, liceo, religione, Parma: «Sono cambiati gli adulti, non i ragazzi. La fatica della burocrazia, la macchina scuola, così complessa, riduce il tempo disponibile per stare con gli studenti e preparare bene le lezioni».

 

Carla Mazzola, osservatorio dispersione scolastica, Palermo: «I ragazzi hanno oggi un diverso modo di comunicare: la globalizzazione li ha investiti con telefonini, Facebook, la Rete. Sono diversi anche perché è diversa la famiglia, non più a modello unico: c’è quella allargata, quella di un solo genitore, ragazzi in comunità per totale disgregazione familiare. Per mesi abbiamo avuto una ragazzina che, sgomberata dalla sua casa abusiva, dormiva e studiava in macchina. Però non ha perso un giorno di scuola. A Palermo ho fatto l’esperienza che proprio nelle scuole di frontiera, a volte l’unica presenza dello Stato in territori molto vasti, si mobilitano le migliori energie positive dei docenti. Qui è impensabile la lezione tradizionale: diventa necessaria una innovazione didattica con attività laboratoriali, progetti in rete con le altre istituzioni e associazioni. E il docente deve presentarsi in maniera autentica, perché questi ragazzi hanno voragini di dolore, ma anche una ricchezza infinita che devono dare a qualcuno».

 

Giovanna Rossi, istituto professionale, matematica, Roma: «Stamattina, in classe, solo uno dei ragazzi aveva portato il materiale di lezione. Non gliene importa nulla, in italiano fanno errori pazzeschi, scrivono solo in stampatello. Una situazione drammatica. Ci sono classi in cui il rapporto è ottimo, ma bastano pochi ragazzi, il cui scopo è mettersi in mostra coi compagni, perché la classe diventi un disastro. A volte addirittura, per farsi accettare, anche quelli bravi smettono di studiare. Poi c’è il bullismo, insomma di tutto, la scuola è un mondo a parte. E riesce a fare sempre meno. I presidi ci chiedono di recuperare quelli che non ce la fanno, ma così sacrifichiamo i pochi bravi per stare dietro agli altri, e ripetere, ripetere sempre le stesse cose. Durante gli scrutini, poi, a un certo punto il preside dice: “Basta, più di questi non possiamo bocciare altrimenti non si riformano le classi”.

 

Tra i ragazzi c’è un generale calo di attenzione, per via del telefonino: mentre tu spieghi, vanno su Facebook o guardano partite. Bisognerebbe passare tutta l’ora a strillare. Sono demotivata. E i presidi ci mettono in condizioni di non agire: non li puoi buttar fuori dalla classe, perché poi nessuno li controlla, se metti troppe note sei tu che non sei capace, se metti voti bassi non sei all’altezza, una frustrazione enorme. Anche il rapporto con i genitori manca, vengono solo quelli dei ragazzini che vanno bene. Gli altri, quando li chiami, sono arroganti. Tanti studenti hanno problemi non dichiarati, tipo dislessia (difficoltà di lettura) o discalculia (non riescono a fare calcoli): penso dipenda dal fatto che crescono con i videogiochi, senza mai leggere libri. Infine, non abbiamo gli strumenti: banchi rotti, poche sedie, niente lim». 

 

Patrizia Mazzola, alberghiero, inglese, Velletri: «Effettivamente oggi insegnare è faticoso. C’è bisogno di creare reti, tessere rapporti, interessare i ragazzi. La cosa importante è che loro sentano se gli vuoi bene, se ti interessi di loro. Mi ricordo un ragazzo sempre nervoso, gli ho chiesto “Cos’hai?”. Mi ha gridato: “Ho fame”, e non solo perché era l’ora della merenda, ma perché non mangiava a casa sua. Gli ho detto: “Da ora in poi, ogni mattina passa al panificio e prenditi la merenda, pago io”. Davanti a noi abbiamo dei mondi: studenti che magari vengono a scuola dopo una notte di lavoro, in giro con i papà a raccogliere ferro per strada, oppure che sopportano liti violente in casa, col papà ubriaco, o genitori che stanno divorziando. Il mondo che i ragazzi hanno dentro è diverso da quello che immagina l’insegnante. Ci vuole rispetto, evitando di usare espressioni che possano ferirli. Educare significa vedere il positivo in loro e tirarlo fuori».

 

Carla Mazzola: «Bisogna credere nell’“ottimismo pedagogico”. Se hai scelto di fare questo lavoro, devi aver fiducia che ognuno può cambiare: tutti possono farlo. L’ambiente e un adulto di riferimento possono fare tanto, anche se non c’è la famiglia. Ognuno di noi ricorda un insegnante che ha avuto un impatto importante nella propria vita».

 

Cecilia Landucci: «A scuola purtroppo ci sono pochi professori giovani, spesso disarmati di fronte a una realtà che non sanno gestire. E comunque nelle scuole difficili i professori sono uniti, mentre nelle scuole “bene” spesso è il contrario».

 

Ester Lo Brutto: «All’inizio della carriera ho avuto problemi a gestire bambini di culture diverse. Ho cercato invano il confronto con le colleghe, rispondevano: “Sono stanca, insegno da anni e non ho più voglia”. Allora mi sono chiesta: “Se fossi al posto di questi bambini cosa vorrei?”. Ho cominciato conoscendoli: ognuno un mondo da penetrare e tirare fuori».

 

Cecilia Landucci: «La collaborazione spesso è ostacolata anche dall’alto, perché il dirigente ha bisogno di tenere tutto sotto controllo. Per scambiarci idee siamo costretti a trovarci fuori dal collegio docenti, lì ormai non si può più parlare: arriva l’ordine del giorno già pronto, il verbale scritto dal dirigente, senza spazio per nuove proposte. Temo si vada verso la privatizzazione».

 

Patrizia Mazzola: «I dirigenti in Francia sono insegnanti scelti a turno dal collegio dei docenti e continuano comunque a insegnare. Il ruolo del dirigente è fondamentale, non dovrebbe occuparsi solo di aspetti burocratici o di management. Comunque, il bilancio che lo Stato italiano dedica alla scuola è inferiore alla media europea».

 

Roberto Borri: «I genitori una volta avevano tempo per i figli. Oggi no, per cui dobbiamo“perdere tempo” con i ragazzi. Una volta, per organizzare un progetto ci siamo incontrati in 19 a casa di una studentessa. Abbiamo discusso, progettato, alla fine ho chiesto a un ragazzo: “Vuoi dire qualcosa?”, “No – ha risposto –, mi basta il fatto che un insegnante abbia perso quattro ore la domenica per stare con noi”. Negli anni ho imparato a dedicare due ore a settimana anche agli ex alunni, che contatto e frequento. L’altra cosa indispensabile, per un docente, è la capacità di capire chi ha davanti. Ho assistito a lezioni di colleghi, inappuntabili dal punto di vista scolastico, ma poco stimolanti da seguire. Com’è possibile che un docente, didatticamente preparato, non si ponga il problema di interessare e motivare? Una volta la mia preside propose al collegio una classe di soli non promossi. La sua provocazione permise di realizzare un progetto ben organizzato, con docenti motivati. Dopo sei mesi la classe era al pari delle altre, fino a diventare un caso didattico».

 

Patrizia Mazzola: «Gli insegnanti hanno bisogno di essere continuamente motivati, collegati, di scambiarsi esperienze, di innamorarsi di nuovo del proprio lavoro, di staccare ogni tanto e confrontarsi. La mia passione viene proprio dal contatto con altri docenti, con i quali ci confrontiamo, parliamo, ci raccontiamo, ridiamo, ci formiamo, scriviamo, studiamo. L’impegno sociale deve organizzarsi, bisogna formare i nodi di una rete».

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