Primo Levi, l’alchimista della memoria

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La casa. Quella dov’è nato, sempre la stessa, la sua casa. Che chiude fra i muri il mistero della vita e soprattutto della morte dello scrittore torinese. Perché, per quanto Primo Levi sia stato un uomo pubblico, per quanto abbia testimoniato la vicenda personale e collettiva nella quale è stato coinvolto, per quanto abbia concesso interviste alla radio e televisione e abbia partecipato a dibattiti pubblici e i suoi libri siano fra i più letti del Novecento italiano, la sua storia continua a sconfinare nell’indecifrabilità del mistero. Racchiuso in quella casa, che quindici anni fa raccolse il suo corpo senza vita. Su quelle scale, fra quelle pareti, l’imponderabile: quel qualcosa d’inspiegabile che è inevitabilmente parte d’ogni vita umana. La sua casa, nella quale ha dedicato tanto tempo alla scrittura e alla riflessione, è però indelebilmente legata a quell’altra casa (se casa la si può chiamare…), a quelle baracche del campo che sorgeva nei pressi del villaggio polacco di Oswiecim: Auschwitz III, Monowitz, nel quale Levi ha passato un lungo, terribile anno. Oggi del complesso del campo di concentramento di Monowitz non c’è quasi più nulla. Per distruggere le prove dei loro crimini i nazisti avevano lasciato in piedi ben poco. C’è la Buna, la fabbrica chimica nella quale Levi ha lavorato, che sorgeva nelle prossimità del lager, e occupa una vasta area; ogni tanto c’è un monumento spontaneo eretto in memoria delle vittime. Dalla casa di Torino, la prosa asciutta di Levi, la sua chiarezza espositiva e la tessitura delle frasi che nulla concede alla facile commozione – e proprio per questo è autenticamente commuovente – continuano a parlare della casa di Auschwitz. Dove i nazisti perseguivano con meticolosa scrupolosità il piano di disumanizzare le loro vittime, di spezzarne l’autonomia, l’individualità, il rispetto di sé, per trasformarle in masse docili, pronte ad essere annientate; dove i detenuti erano così deperiti da essere indistinguibili l’uno all’altro; dove i persecutori “di allora non avevano viso né nome (…): erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo”. Levi aveva sperimentato che in ogni persona si celano varie misture di brutalità e di pietà, e che in un sistema oppressivo l’equilibrio fra queste due potenzialità può essere gravemente alterato. Nelle sue riflessioni sulla natura umana in condizioni estreme, ispirate all’esperienza del campo di concentramento, Levi ha analizzato con lucidità – soprattutto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati – la funzione della “zona grigia”: di quella massa di persone che sempre è presente in ogni sistema dittatoriale come collaboratore silenzioso e invisibile: che non è né carnefice né vittima, ma che può diventare – a seconda della circostanza – ora l’uno ora l’altro. Considerazioni penetranti sulla natura umana che fanno di Levi un pensatore universale, non soltanto un testimone della Shoah. Primo Levi scrisse di sé stesso: “Non sono un profeta. Sono un uomo normale e di buona memoria, che è incappato in un vortice e che ne è uscito, più per fortuna che per virtù”. Ricordare e narrare, verbi che si coniugano così bene con la mentalità ebraica, assumono per Levi, uscito dall’inferno di Auschwitz, l’imperativo di un compito etico, d’una vocazione. “Finché esiste la concezione che ogni straniero è un nemico, le sue conseguenze ci minacciano. E la storia dei campi di distruzione dovrebbe essere intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Primo Levi è un uomo polivalente: tecnico che per anni ha lavorato nell’industria chimica, ma anche e soprattutto un grande scrittore dalle multiformi prospettive. È italiano ed ebreo, ma anche un cittadino del mondo, perché non ha scritto libri sullo sterminio degli ebrei, ma sullo sterminio nazista in generale che accomunava ebrei e zingari, slavi e partigiani, militari e deportati – respingendo sempre e comunque la facile santificazione delle vittime. Insomma, Levi, un alchimista: che ha saputo coltivare sia con la pazienza e la competenza dell’uomo di scienza sia con il sentimento dell’artista, l’arte della memoria. Oggi continuano a essere pubblicate biografie di Primo Levi: quelle della francese Daniela Amsallem, dell’inglese Robert Gordon e del giapponese Kji Taki, per citarne alcune. Soprattutto tese a sondare il mistero del suo suicidio avvenuto proprio 15 anni fa. Di lui, che aveva avuto la forza di superare e raccontare l’esperienza estrema dei campi di sterminio. Ma, per restare sulla soglia di questo mistero senza profanare l’intimità dello scrittore, ecco due suoi pensieri. Il primo, scritto quasi 25 anni fa: “Ogni azione umana contiene un duro nocciolo diincomprensibilità: se non fosse così, saremmo in grado di prevedere che farà il nostro prossimo, il che non avviene, e forse è bene che non avvenga. Particolarmente difficile è penetrare il perché di un suicidio, poiché, in generale, il suicida stesso non ne è consapevole, oppure fornisce a sé stesso e agli altri informazioni volontariamente o involontariamente alterate”. Il secondo, che si rifà all’esperienza del lager: “I disagi materiali, la fatica, la fame, il freddo, la sete, tormentando il nostro corpo, paradossalmente riuscivano a distrarci dalla infelicità grandissima del nostro spirito. Non si poteva essere perfettamente infelici. Lo dimostra il fatto nel lager il suicidio era un fatto assai raro. Il suicidio è un fatto filosofico, è determinato da una facoltà del pensiero. Le urgenze quotidiane ci distraevano dal pensiero: potevamo desiderare la morte, ma non potevamo pensare di darci la morte. Io sono stato vicino al suicidio, all’idea del suicidio, prima e dopo il lager, mai dentro il lager”. Ma altri hanno raccolto il testimone di Levi, dopo quel tragico avvenimento. Come Jean Samuel, detto Pikolo, il più giovane tra i prigionieri del kommando chimico che lavorava alla Buna, a cui lo scrittore ha dedicato uno di capitoli più belli di Se questo è un uomo. Un frammento di luce, che per un attimo irrompe nel grigio della tragedia di Aschwitz. Quando Levi, per insegnare all’allora studente alsaziano Jean qualche rudimento d’italiano, scelse il canto d’Ulisse di Dante: “Nati non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza”. Pikolo, ora, è un signore di ottant’anni. È venuto un paio di mesi fa a Torino ad una manifestazione in onore di Levi. Lui, a differenza dell’amico, non amava raccontare, era di natura schiva. Ma da quando la voce di Primo s’è spenta, s’è alzata la sua. Per ammonire che, con la perdita della memoria, tutto si può ripetere, anche il lager.

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