A Pisa il Requiem di Verdi

La cattedrale ha ospitato la XVIII Rassegna internazionale di musica sacra “Anima Mundi” con il poema di Verdi diretto da John Eliot Gardiner. Una esecuzione sotto vari aspetti “storica”

900 anni ha il duomo di Pisa, gioiello candido in quello splendore mai sufficientemente ammirato quale è il Campo dei Miracoli. Era giusto festeggiare qui la conclusione, il 20 settembre, della XVIII Rassegna internazionale di musica sacra “Anima Mundi” con il poema gigantesco di Verdi. Quella sua meditazione sulla morte e il dopo-morte che si riallaccia prepotentemente – chissà se Verdi lo pensava – al ciclo di Buffalmacco ora restaurato nel Camposanto.

È un Verdi che crede o un Verdi che dubita o un Verdi che cerca? Forse tutte e tre le cose insieme. Perché se c’è un uomo riservato su sé stesso al grado massimo è proprio lui. Alcuni sostengono la religiosità “laica” di Verdi, come se una religiosità potesse evitare il pensiero sul trascendente. Comunque, quando egli compose la Messa da Requiem nel 1873 in memoria del Manzoni pensava, dopo Aida, di aver chiuso con l’opera. E in un certo senso è vero. Infatti, il Requiem è una sintesi gloriosa di tutto il suo lavoro. Va da accensioni straordinarie, davvero michelangiolesche – il Dies irae – a sospiri affannosi – Libera me –, da struggimenti del coro – Requiem –, al pianto dei violoncelli nel Lacrimosa, sino alle dolcezze squisite dell’Hostias, oltre ai saggi polifonici del Sanctus. Insomma, un dramma affrescato in tinte potenti, ma anche in soavità malinconiche. Su tutto spira un immenso desiderio di pace, col quale peraltro termina la composizione. Si esce con l’anima accesa dai tumulti, piagata dal pianto e consolata dal riposo conclusivo. Maestro del cuore umano, Verdi.

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La cattedrale di Pisa, di una bellezza rapinosa, sotto lo sguardo del dolce Cristo di Cimabue – altro che i Pantocratori severi! – ha visto il Monteverdi Choir – bravissimo, intonato, pronuncia quasi perfetta – e l’Orchestre Révolutionnaire et Romatique diretti da sir John Eliot Gardiner. Un musicista specializzato nel barocco ma che poi sta attraversando la storia della musica, da Beethoven a Berlioz e ora a Verdi.

Il gesto è misurato, la complicità con coristi e strumentisti evita inutili sbracciamenti e va all’essenziale. Il suono dell’orchestra è lucente negli ottoni, delicato nei legni, quanto agli archi il meglio lo danno le viole e i violini secondi, mentre i violoncelli gradirebbero un maggior calore.

Gardiner offre del Requiem una lettura che tende alle sfumature: impressionante l’Hostias, sul tremolo dei violini secondi, con il basso Gianluca Buratto – che lo esegue come Verdi ha scritto, legato e dal trillo lento –, e il tenore squillante e delicato Edgaras Montvidas. Il soprano Corinne Winters ha il timbro di grazia come la seta, commossa davvero insieme al mezzoprano svedese Ann Hallenberg. Il quartetto è dunque ottimo per affiatamento, si ascolti l’Agnus Dei: calore, unità vocale, fedeltà allo spartito.

Certo, Gardiner troneggia e il suo Verdi conosce fortissimi e pianissimi spasimanti, sussurri angosciosi del coro in un approccio drammatico, che tuttavia sa fermarsi ed evidenziare dolcezze spesso nascoste nella partitura, suggerendole ai legni e pure agli ottoni. Col tempo troverà sempre di più il cuore di Verdi che qui pulsa a un ritmo accelerato, piangendo pregando gridando. Successo assai meritato per una esecuzione sotto vari aspetti “storica”.

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