Piano dell’Onu per fermare le violenze a sfondo religioso

Indirizzato ai leader di tutte le religioni, il documento articola in 177 punti la strategia per impedire crimini nel nome della fede. Una parte è dedicata al ruolo dei governi e dei media
Assemblea generale delle Nazioni Unite

Ci sono voluti due anni di lavoro e la collaborazione di 232 tra leader religiosi e mediatori di pace di 77 Paesi del mondo per stendere il Piano d’azione per impedire l’incitamento alla violenza e ai crimini atroci, presentato a metà luglio nella sede dell’Onu a New York dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

«I crimini e le atrocità non avvengono improvvisamente e in modo spontaneo – ha precisato il segretario nell’intervento introduttivo -. Spesso sono frutto di un processo che cresce nel tempo e si alimenta di messaggi e parole d’odio diffuse sia attraverso discorsi pubblici sia attraverso i media, inclusi i social». Guterres ha ribadito che «se la libertà di parola è protetta, l’incitamento alla violenza è proibito e gli Stati hanno la responsabilità di lavorare nella prevenzione dei crimini i leader religiosi svolgono un ruolo importantissimo nell’influenzare il comportamento di chi condivide il loro credo e nell’indirizzarlo alla pace».

Articolato in 177 obiettivi suddivisi in tre gruppi di raccomandazioni, il piano mira ad impedire crimini e atrocità e a rafforzare e costruire strategie di convivenza non solo nelle aree del mondo a rischio, ma anche in tutti quei contesti dove serve lavorare alla prevenzione di estremismi violenti e di conflitti. Destinato principalmente ai leader religiosi, il documento offre raccomandazioni dettagliate anche agli Stati, alle organizzazioni della società civile e ai media nuovi e tradizionali, poiché «la prevenzione dei crimini, la garanzia di libertà di espressione, religione, credo e di riunione pacifica, sono frutto di un’operazione multilivello a cui tutti sono chiamati a collaborare».

I media sono protagonisti in maniera trasversale in tutto il documento, ma al punto sei vengono date indicazioni molto precise perché non diventino complici della violenza. Anzitutto si chiede di smettere di finanziare tutti quei canali di comunicazione che incitano all’odio e ad un uso distorto della fede, mentre si invita a promuovere storie positive e iniziative di pace e dialogo interreligioso per mettere fine ai pregiudizi. Il piano fa un appello alla responsabilità etica e sociale dei giornalisti e chiede l’istituzione di un codice etico per chi si occupa di religioni.

Il nunzio monsignor Bernardito Auza, intervenendo a nome della Santa Sede, ha ribadito il pensiero di papa Francesco sul considerare le religioni «parte della soluzione del problema e non un problema» e ha sottolineato la necessità per i leader a guida di comunità religiose di partecipare a «significativi incontri tra le religioni che favoriscano un dialogo reale». Il nunzio ha incoraggiato ad utilizzare le buone pratiche offerte dal piano Onu per dissuadere dall’odio e dalla violenza «coloro che usano di motivazioni pseudoreligiose e che non saranno dissuasi da argomentazioni secolari ed economiche; ma che hanno bisogno, piuttosto, di veri argomenti religiosi che dimostrino come l’interpretazione che induce violenza è infedele al testo sacro e al Dio che gli estremisti pretendono di servire». Infine un richiamo è andato alla responsabilità degli Stati nel fermare genocidi e atrocità «perché i leader religiosi possono contribuire nel prevenire i crimini, ma poi non hanno gli strumenti per fermarli: e questo è un compito degli Stati, delle loro agenzie e delle forze armate».

Il segretario Gutierres, nel corso del dibattito sulle strategie attuative, ha sottolineato che il piano «può aiutare a salvare vite umane, a ridurre la sofferenza e a realizzare una visione condivisa di pace, inclusività, società giusta, dove la diversità è un valore e i diritti di tutti gli individui sono protetti».

Buddisti, cristiani, indù, ebrei, musulmani e sikh di vari gruppi e denominazioni, sono stati tra gli estensori del documento e a loro si sono aggiunti rappresentanti di varie minoranze religiose tra cui i Baha’i, Candomblé, Kakai, Yazidi.  Il 30 per cento degli interlocutori era costituito da donne. Per l’Italia erano presenti rappresentanti di Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), Comunità di sant’Egidio, Unione buddista italiana, Fondazione per i diritti umani  Robert F. Kennedy , della moschea Al-Wahid di Milano e della Commissione interministeriale per i Diritti umani.

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