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Pasquale Ferrara: intervista sulla storia

di Giulio Meazzini

Giulio Meazzini, autore di Città Nuova

La centralità strategica della diplomazia. Ucraina, Gaza, Onu, Unione europea: coltivare sempre una speranza operosa di pace.

Pasquale Ferrara, a capo per quattro anni della Direzione generale per gli affari politici e di sicurezza del Ministero degli Affari Esteri, ha lasciato la carriera diplomatica dopo 41 anni di servizio.

Chi è Pasquale Ferrara?

Un cittadino italiano, che però si sente anche cittadino europeo e, in buona misura, anche cittadino di questo pianeta. Tre livelli di responsabilità, tutti importanti, tre dimensioni che non possono essere separate.

Perché ha scelto la carriera diplomatica?

Da piccolo, mia nonna materna mi regalò una specie di atlante “vuoto”, su cui bisognava incollare i nomi delle capitali dei vari paesi, facendo nascere una curiosità per quello che accadeva al di là dei “confini”. Durante gli anni del liceo, in particolare, ho sviluppato un grande interesse per le crisi internazionali, ad esempio per quello che accadeva in Cile, Paese dove anni dopo sarei andato come diplomatico. Poi, ad un certo punto della mia vita, l’incontro con Chiara Lubich e il grande carisma dell’unità e della fraternità universale mi ha dato la spinta decisiva. Ho fatto diversi concorsi, finché ho superato quello per la carriera diplomatica, forse il più difficile. Mi è sembrato un segno: coltivare l’interesse per la complessità, l’universalità e la diversità.

Quali sono i luoghi principali nel mondo dove ha svolto la sua azione diplomatica?

Premetto che ho amato tutti i posti in cui sono stato. Ci sono andato con la famiglia e abbiamo lasciato un pezzetto di noi in ogni Paese. In Cile sono arrivato durante la transizione democratica, dopo gli anni di Pinochet: le due parole chiave erano speranza e riconciliazione. Poi sono stato in Grecia: lì l’obiettivo era prendersi cura della comunità italiana, in un contesto internazionale complesso, anche per la dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Poi a Bruxelles, con l’ultima grande stagione riformista dell’Unione europea e l’idea di una Costituzione europea che purtroppo non è andata a buon fine. Poi negli Stati Uniti: una società complessa, con luci e ombre, ma con una grande vitalità. Anche per gli Usa vale il detto i governi passano, i paesi restano. Bisogna conservare la fiducia che la società americana riuscirà a riprendere un cammino più costruttivo nei rapporti con il mondo esterno. Poi l’Algeria, che durante il mio mandato conobbe un periodo di grande slancio e cambiamento, che portò all’uscita di scena di Bouteflika; un percorso ancora incompleto. Infine, l’ultimo periodo alla Farnesina, particolarmente impegnativo: il mio ruolo di inviato per la Libia, il ritorno dei Talebani in Afghanistan, la guerra della Russia contro l’Ucraina, il conflitto tra Israele e Hamas e quello tra Israele, Stati Uniti ed Iran. E poi le “guerre dimenticate”: il Sudan, Haiti, Armenia – Azerbaigian, e molti altri focolai di tensioni e conflitti.

C’è chi dice che ormai la diplomazia sia impotente, anzi inutile, perché conta soltanto chi è più forte…

Se guardiamo alle crisi che ci sono state in questi anni, quasi sempre, anzi direi sempre, l’applicazione della forza è stata un fallimento, nel senso che le crisi non sono state affatto risolte. Si può vincere una guerra, altra cosa è vincere la pace. Basti pensare all’Afghanistan, dopo vent’anni di presenza militare, addirittura della NATO, siamo tornati alla casella di partenza, con il ritorno dei Talebani, che c’erano già nel 2001. Bisognerebbe interrogarsi seriamente ed in modo critico sull’efficacia di questi interventi. Per non parlare della Libia, dove ancora oggi non si riesce a trovare una soluzione dopo l’intervento militare. Stesso risultato in Iraq, invaso degli Stati Uniti nel 2003.

Alla fine, credo che l’unico modo realistico di affrontare le crisi sia attraverso la via diplomatica e la strada politica. Il detto si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra) suona oggi di una superficialità imbarazzante, ed è anche uno di quei concetti falsificabili, come avrebbe detto Popper. Tutte le volte che nella storia si è preparata la guerra, prima o poi una qualche forma di guerra la si è ottenuta. Cosa diversa è attrezzarsi per la difesa, ma questo deve implicare anche una dimensione democratica. Le decisioni sulla difesa e sugli armamenti non possono essere prese dentro stanze chiuse, da tecnocrati, militari o diplomatici. Ci deve essere un processo che coinvolge i popoli, va ricercata una legittimazione, una ragione pubblica, per queste scelte.

La diplomazia prepara progetti e piani di pace, poi è la politica che deve decidere. Dire che la diplomazia ha fallito è ingeneroso, bisognerebbe dire che la politica ha fallito. Se la diplomazia fallisce è solo perché viene tradita, assecondando in modo acritico, ad esempio, lo slogan abbastanza trito pace attraverso la forza. Possono tradire la diplomazia, intesa come ricerca di soluzioni che non implicano l’uso della forza, anche i diplomatici, quando sono troppo asserviti al potere e rinunciano a mettere sul tavolo opzioni alternative. Lo diceva già Emanuel Kant nel 1795: i prìncipi decidono a loro piacimento se cominciare un conflitto, tanto poi trovano sempre dei diplomatici pronti a giustificare qualunque cosa. Il vero tema non è l’inefficacia della diplomazia, ma il tradimento della diplomazia.

Sergio Mattarella e Pasquale Ferrara

Sergio Mattarella e Pasquale Ferrara (Foto cortesia Presidenza della Repubblica)

Dobbiamo dare le armi all’Ucraina?

Se un popolo viene invaso, dobbiamo metterlo in condizione di difendersi. Ma, se guardiamo all’Ucraina, in questi ultimi tre anni è mancata totalmente una parallela pista diplomatica. Quindi va bene la legittima difesa, ma solo insieme alla conflict diplomacy, cioè iniziative diplomatiche serie, da mettere in campo mentre ancora le ostilità sono in corso, in modo parallelo, riservato o pubblico. Non solo la diplomazia delle armi, ma l’arma della diplomazia. L’Unione Europea si è a mio avviso giustamente schierata con l’Ucraina, ma al contempo ha rinunciato a svolgere il ruolo politico che le compete, ricercare incessantemente la pace e la stabilità nel continente europeo. Certo, poi la pace si fa in due, non può essere unilaterale, e Putin non ha mai dato segni di voler chiudere la guerra in Ucraina in modo negoziale, almeno sinora. Ma qualcuno deve pur prendere l’iniziativa. Mi pare che sia mancata la necessaria tenacia ed anche la convinzione nella ricerca di soluzioni politiche di questo terribile conflitto.

C’è chi dice smettiamola di chiedere la pace “giusta” in Ucraina, meglio la pace “possibile” per far finire il mattatoio…

Mi sono trovato in alcune discussioni con colleghi di altri Paesi importanti, proprio sul concetto di pace giusta. Cosa significa pace giusta? Per esempio, che l’Ucraina deve recuperare tutti i territori occupati, compresa la Crimea, e che bisogna portare i vertici russi davanti alla Corte penale internazionale? Penso che si debba avere una concezione più pragmatica, però qualificandola. Pace giusta è qualunque tipo di risoluzione del conflitto accettato liberamente dall’Ucraina nel pieno esercizio della propria sovranità e indipendenza, senza indebite ingerenze esterne di qualunque natura, anche economica. In pratica, ciò che sta bene agli ucraini deve essere accettato come pace giusta anche dalla comunità internazionale. Noi possiamo produrre proposte conciliatorie, ma una pace giusta deve essere liberamente conclusa e accettata dall’Ucraina. Non ci può essere alcuna pace giusta se imposta, a meno che non ci sia una resa pura e semplice, ma questa è altra storia, ed io spero che finisca in modo diverso, con un serio e sostenibile compromesso.

Per quanto riguarda Gaza e i territori palestinesi, qualcuno spiega che è inutile continuare a insistere per “due Stati, due popoli”, visto che in Cisgiordania ci sono 800mila coloni ebrei, una groviera ingestibile…

Questo è un alibi che sento da molti anni. Quando sono entrato nella carriera diplomatica, avrei voluto essere il primo ambasciatore d’Italia presso il nuovo Stato di Palestina. Penso che queste argomentazioni, come ad esempio l’ingestibilità di Gaza e la complessità degli insediamenti israeliani illegali, siano solo pretesti. Prima del 7 ottobre, Israele e diversi paesi occidentali sostenevano l’impossibilità di un negoziato credibile finché fosse rimasta la contrapposizione tra Gaza governata di fatto da Hamas e la Cisgiordania governata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Questo ha fatto comodo a diversi governi israeliani. In realtà, c’è un unico referente, ed è sempre stata l’Autorità nazionale palestinese, riconosciuta dagli accordi di Oslo sin dal 1993.

A questo punto, però, prima ancora di parlare di due Stati dobbiamo chiederci quale sia l’orizzonte politico. Quello che sta accadendo a Gaza non ha nessun significato strategico, né militare, né politico. Quale è la prospettiva, lo status finale? Non c’è. Manca qualunque visione di una sistemazione politica della vicenda palestinese. Le ipotesi possono essere tante. La proposta dello Stato unico in cui siano inglobati i palestinesi non sta in piedi, perché a quel punto Israele dovrebbe rinunciare all’idea di uno Stato ebraico, in senso identitario e religioso. In questo Stato ebraico non c’è spazio politico, ad esempio, per i palestinesi musulmani, se non in una sorta di riserva indiana più o meno tutelata, con uno status minoritario. E comunque la questione è territoriale, non certo religiosa.

Altra cosa sarebbe uno Stato federale, o confederale come ce ne sono tanti, con una partecipazione dell’Autorità palestinese alle istituzioni centrali. Ma non vedo alcuna volontà politica in tal senso da parte di Israele. Una cosa è certa: fin quando rimarrà aperta la questione palestinese è illusorio pensare che ci possa essere pace in Medio Oriente. Se naturalmente non ci può essere pace senza sicurezza, perseguire da parte di Israele la sicurezza senza la pace è un obiettivo chimerico, che non sarà mai raggiunto se non c’è una soluzione politica condivisa.

Non le succede mai di essere depresso per la situazione del mondo?

Una dimensione che non bisogna mai perdere è quella della pazienza strategica. Bisogna ricostruire e rilanciare pezzo dopo pezzo tutti i percorsi che sembrano più devastati e improbabili. L’altro giorno, parlando a dei giovani colleghi della carriera diplomatica, ho detto: guardate che voi dovete essere ottimisti per… contratto. Voi siete diplomatici, se non foste ottimisti e non speraste in un futuro migliore, allora il vostro lavoro sarebbe del tutto inutile. Non avrebbe senso. Il diplomatico è uno che costruisce, non tanto ponti, quanto, più modestamente, passerelle e serpentine in un percorso intricato. Senza mollare mai, ritornando sempre tenacemente al concetto fondamentale: la diplomazia è alternativa alla guerra.

Lei ha detto che i 4 anni al MAE sono stati duri. Perché?

Sono stati duri soprattutto per le condizioni esterne. Sono arrivato all’incarico di Direttore Politico e dopo un mese ci siamo trovati a fronteggiare l’Afghanistan, con il ritorno dei talebani, l’evacuazione, un ponte aereo. Poi ricordo alle 5 del mattino del 24 febbraio 2022 la telefonata tra i direttori politici del G7 con la terribile notizia che i russi avevano invaso l’Ucraina, una cosa a cui nessuno voleva credere. Non si pensava che Putin arrivasse a tanto. E poi il 7 ottobre con la strage di ebrei, e la reazione israeliana, disumana, inaccettabile e condannabile secondo tutti gli standard di diritto umanitario e direi anche di civiltà, contro la popolazione civile a Gaza. Nel frattempo, tanti altri sussulti sul fronte delle organizzazioni internazionali, le Nazioni Unite, il futuro della NATO, l’Unione europea con le sue drammatiche divisioni interne, soprattutto in politica estera, con il blocco rappresentato dalla regola dell’unanimità: basta un solo Stato contrario e l’Unione si paralizza. Un periodo duro, aggravato dalle diverse versioni di sovranismo e nazionalismo, che minano l’Unione Europea dall’interno.

Cosa cambiare in Europa?

L’Ue potrebbe funzionare benissimo, perché già oggi esistono strumenti che consentirebbero di passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata senza fare grandi riforme dei Trattati. Ma ormai c’è una rinazionalizzazione delle politiche europee. Ad esempio, con il programma Rearm Europe, sono anzitutto gli Stati membri, le “nazioni” che si riarmano. Nel 1954 era stata immaginata la Comunità europea di difesa, che però naufragò. Nel nuovo programma manca totalmente una dimensione istituzionale, di integrazione politica, che favorisca la difesa comune europea. Per questo, Rearm Europe (al di là del titolo infelice, che è il minore dei problemi) rischia di essere un’occasione persa in direzione di una vera difesa europea. Tra l’altro, evitando duplicazioni e sprechi nei 27 Stati membri, ciò renderebbe assai più efficiente la spesa e anzi consentirebbe di risparmiare investimenti, da dedicare al rafforzamento dello stato sociale europeo, che un po’ dovunque versa in condizioni critiche.

Sergio Mattarella e Pasquale Ferrara con la moglie (Foto cortesia Presidenza della Repubblica)

Sergio Mattarella e Pasquale Ferrara con la moglie (Foto cortesia Presidenza della Repubblica)

Lo stesso problema vale per l’Onu: come riformarlo?

Più che riformare l’ONU, bisognerebbe riformare il Consiglio di sicurezza, un’oligarchia di 5 membri permanenti con diritto di veto. Le ipotesi sul tappeto ripropongono lo stesso schema, quindi non sono innovative. Allargare l’oligarchia – con l’aggiunta di nuovi membri permanenti con diritto di veto – non equivale affatto ad ottenere la democrazia all’ONU.  Bisogna cambiare prospettiva. È una cosa su cui abbiamo lavorato con i colleghi delle Nazioni Unite: bisognerebbe consentire ai gruppi regionali, quindi ad Africa, Asia, America Latina, di essere membri permanenti, ma eleggendo al loro interno, a rotazione, il rappresentante nel Consiglio di sicurezza. Questo sdrammatizzerebbe la riforma, non ci sarebbero inclusi ed esclusi. Certo, è utopico pensare di cambiare la storia. Il Consiglio di sicurezza si è strutturato in questo modo dalla fine della Seconda guerra mondiale, non mi sembra pensabile intaccare i privilegi dei membri permanenti.

Il tema di fondo è riformare le Nazioni Unite per renderle un organo che si fa davvero carico la sicurezza collettiva, evitando che ognuno si faccia giustizia da sé. L’abbiamo visto recentemente: azioni militari unilaterali contro l’Iran, per giunta mentre erano in corso negoziati. Non sono azioni consentite dal diritto internazionale, né sono politicamente molto intelligenti, creando esse i presupposti per risentimenti a lungo termine e soprattutto esponendo l’Occidente all’accusa di doppi standard. Nel medio, lungo periodo, se l’Onu diventa irrilevante assumeranno molta più importanza circuiti alternativi, come i Brics o il G7, gruppi più o meno coesi, che si muovono al di fuori dalle istituzioni multilaterali. Questo è un grave elemento di disgregazione. Eravamo riusciti a mettere su una società internazionale, con la condivisione di regole a livello mondiale, rendendo prevedibili i comportamenti degli stati. Ora stiamo regredendo al puro e duro sistema internazionale, cioè a relazioni tra gli Stati basate quasi esclusivamente sulla forza, sia militare, che economica. In questo nuovo scenario, manca l’elemento di appartenenza comune a istituzioni condivise. Stiamo correndo un grande rischio di totale anarchia.

È definitivamente tramontato l’ideale di Chiara Lubich di un mondo unito?

Assolutamente no. La prospettiva mondo unito non ha mai voluto significare, penso, un unico governo mondiale, che sarebbe non solo utopico, ma probabilmente anche indesiderabile per molti. Il tema dell’unità si deve giocare sulla necessità di avere non solo istituzioni comuni in cui potersi riconoscere, ma anche obiettivi comuni. Unificazione non significa omologazione, ed è un processo che non può avvenire dalla sera alla mattina. Ci sono stati molti tentativi nella storia, però credo che il percorso rimanga sempre aperto, valido e necessario. Soprattutto in un momento di totale disgregazione del cosiddetto ordine internazionale, che poi alla fine è un grande disordine, per le disparità economiche e di potere che ci sono. Ritorna sulla scena la guerra, nuovamente utilizzata come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali. Quindi il mondo unito è più che mai attuale, ma lo dobbiamo interpretare come un percorso, un processo e una prospettiva di grande responsabilità. Una visione che non ha nulla a che fare con l’utopia, ma, al contrario, è l’unica prospettiva davvero realistica se vogliamo fare del mondo qualcosa di sensato e fruibile per le prossime generazioni.

Sergio Mattarella consegna a Pasquale Ferrara l'onoreficienza di Cavaliere di Gran Croce (Foto cortesia Presidenza della Repubblica)

Sergio Mattarella consegna a Pasquale Ferrara l’onoreficienza di Cavaliere di Gran Croce (Foto cortesia Presidenza della Repubblica)

Lei ha affermato di essere sempre stato nella sua carriera distante da cordate, clan, circoli chiusi…

Sì, questo vale un po’ in tutti i contesti lavorativi, si creano delle aggregazioni che poi favoriscono le scalate di carriera. Personalmente ho sempre cercato di anteporre un minimo di etica del servizio. Anche il mio avanzamento nella carriera diplomatica è avvenuto in modo fisiologico, un po’ in ritardo rispetto ad altri. Ma non biasimo nessuno, nessuno di noi è esente da inciampi. Detto questo, però, credo che l’etica sia fondamentale in tutti i sistemi di garanzia del servizio pubblico, quando si rappresenta l’interesse del popolo italiano. In questi giorni, soprattutto da parte di molti giovani colleghi diplomatici, ho avuto degli attestati di stima proprio su questo aspetto, cosa che non mi sarei aspettato in tale misura e con tale convinzione. Questo mi ha colpito e credo sia la cosa più preziosa, il lascito forse più importante che posso consegnare ai giovani colleghi. Sono loro il futuro della diplomazia italiana, la speranza di un mondo più giusto e meno bellicoso, meno cavernicolo di quello che stiamo fronteggiando oggi.

Il presidente Sergio Mattarella l’ha ricevuta in un’udienza di saluto a fine carriera. Come è andata?

Sono stato onorato e profondamente toccato dal fatto che il Presidente mi abbia concesso un’udienza, assieme a mia moglie. Il colloquio con lui è stato di straordinario interesse. Ci hanno colpito la sua apertura, la sua disponibilità all’ascolto e la sua capacità di mettere gli interlocutori totalmente a loro agio. Ci siamo sentiti veramente accolti. Il Presidente segue con estrema attenzione e in modo approfondito la politica internazionale, con l’acume di giudizio e la saggezza che lo contraddistinguono. Segue molto da vicino anche il lavoro della Farnesina. Ma soprattutto Mattarella ha un grande rispetto per chi opera nelle istituzioni, e un senso di grande apprezzamento per il lavoro svolto dai diplomatici italiani nel mondo. Mi ha sorpreso, accogliendomi con un gesto di straordinaria rilevanza, cioè conferendomi la massima onorificenza della Repubblica italiana, quella di Cavaliere di Gran Croce. Questo mi ha commosso. È il riconoscimento più bello a cui avrei potuto aspirare, che ripaga tante fatiche, incomprensioni e sforzi della mia carriera diplomatica. Dopo più di quattro decenni di servizio, oggi prevale in me un senso di benevolenza, di riconciliazione e di compiutezza.

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