Parole su Gaza

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C’è un cinismo della politica, che mette al primo posto le proprie strategie rispetto alla vita delle persone. Questo vale per Hamas, che costruisce le sue caserme là dove ci sono le abitazioni civili, secondo un singolare paradosso per cui sono i civili inermi, che difendono i soldati; e che lancia i missili kassam per scatenare la reazione militare di Israele, a protezione del suo popolo. Hanno rotto la tregua e voluto i morti, i loro morti, perché sperano di guadagnare dall’odio. Una politica suicida, che nell’immediato può avere molti consensi. Questo vale per Israele, che dopo aver sfiorato l’accordo con Abu Mazen, si è di nuovo rifugiata nella sindrome del Libano: una guerra giudicata da tutti necessaria al suo inizio, e che poi si è impantanata, mostrando che la forza militare non sempre produce successi, ma anche sconfitte. L’azione militare su Gaza è segno di una grande impotenza, non di una grande politica. Quando ci si affida a raid aerei devastanti, non si guadagna nulla in termini politici, ma si semina quell’odio, che poi ha bisogno di generazioni per essere superato. Il fuoco non andava acceso. Non andava acceso da Hamas, non andava acceso da Israele. Il fuoco davvero non serve. Non serve contro la gente di Gaza. Non serve contro i cittadini di Israele. La stessa comunità internazionale con la sua distrazione e il suo impegno ad intermittenza ha dimenticato che il fuoco non era spento e covava sotto la cenere. Un anno si è perso. L’azione diplomatica non ha cambiato passo, l’azione umanitaria si è fermata di fronte alla emergenza economica in Occidente. Nel vuoto della politica è di nuovo cresciuta la violenza. E abbiamo visto quello che non dovevamo vedere. Ho conosciuto i bambini di Gaza. Quelli malati, che ho visitato nei loro ospedali. Quelli (50) che questa estate hanno partecipato al campo estivo con 50 bimbi di Sderot. Non so dove sono in queste ore. Forse qualcuno è stato ucciso, forse qualcuno è stato ferito, forse qualcuno ha la casa distrutta. Ma tutti, tutti mi hanno sempre chiesto la salute, la pace, la scuola, la vita felice con le loro famiglie. Ecco, io credo che, se vogliamo risolvere questo conflitto, dobbiamo avere il coraggio di guardarlo con gli occhi dei bambini e non con il calcolo della politica cinica. I bambini di Gaza e di Sderot ci indicano la via del dialogo, della convivenza, della fraternità, della condivisione. Non è un approccio ingenuo, se quello saggio sono i bombardamenti e le stragi. È l’unico realismo possibile se si vuole evitare la catastrofe in tutto il Medio Oriente. Ecco la parola chiave per una nuova cultura della pace: resistere al male, alla violenza, alle armi, alla tentazione del dominio, alla giustificazione della violenza in nome di un presunto diritto. La resistenza alla guerra e non attraverso la guerra. La resistenza ad ogni operazione mortifera, perché nell’uccisione dell’altro c’è anche la nostra morte. Davvero tutto è perduto con le armi e nulla è difeso. È solo una illusione pensare che le armi ci difendano e ci diano sicurezza. Anche a Gaza la vecchia cultura della guerra produce il suo fallimento. Bisogna imparare a guardare la realtà con gli occhi del nemico, comprendere il suo dolore e la sua domanda di giustizia, riconoscere le nostre responsabilità per il dolore e l’ingiustizia che gli tocca di vivere, anche per le nostre complicità. Il 2009 è dedicato dalle Nazioni unite alla riconciliazione. Se lo sarà a Gaza, lo sarà in tutto il mondo.

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