Paolo Padovani: sopravvissuto alla shoah

Era un giovane ebreo laico, figlio di un generale dei bersaglieri. Dopo le leggi razziali fu costretto a scappare, a lasciare la sua casa con tutta la famiglia, a nascondersi per sfuggire ai rastrellamenti. I diari letti dalla figlia Anna solo dopo la sua morte

«Mio padre si chiamava Paolo Padovani. Era un giovane ebreo laico, figlio di un generale dei bersaglieri. Dopo le leggi razziali fu costretto a scappare, a lasciare la sua casa con tutta la famiglia, a nascondersi per sfuggire ai rastrellamenti. Solo per caso non è stato deportato: è stato un sopravvissuto della shoah».

Inizia così il racconto di Anna, figlia di Paolo Padovani, che nel giorno della Memoria ripercorre la vita del padre, per lei sconosciuta e segreta fin dopo la morte del genitore l’11 settembre 2008.

«Non è che non vedessi che era angosciato ma non capivo – spiega Anna -. Quando provavo a chiedergli di parlarmi, di raccontare gli venivano le lacrime agli occhi e si chiudeva nel silenzio». Il silenzio sulla sua vita era infranto nelle pagine scritte dei quaderni, tutti datati, firmati e chiamati “appunti di un diario”. Su uno di questi perfino il titolo “La controvita”.

«Solo dopo la sua morte ho scoperto quello che era successo a mio padre, alla nostra famiglia. Prima non sapevo, ero all’oscuro. Fu mia madre a farmi prendere quei diari. Poi l’altra scoperta al ghetto, lì avevano le date, le storie di tutti. Seppi dell’esistenza di mia zia Nella, sorella di mia zia Ada con cui sono cresciuta. Nella era una maestra, aveva 36 anni quando la notte dei rastrellamenti, scappando con Ada, fu presa e deportata ad Auschwitz dove morì bruciata viva. Leggendo tutte quelle cose ho iniziato a piangere. Quella sera prima di tornare a casa ho dovuto camminare parecchio per digerire quello che avevo scoperto. Ma cavolo papà perché non mi hai detto niente?, mi domandavo. Ero piccola e voleva proteggermi ma…»

Quelle di Paolo Padovani sono pagine fitte di parole in una elegante grafia, pensieri di inchiostro spesso carcerati e tagliati. Ricordi, paure, angosce, sogni dove le assenze diventavano presenze, come gli occhi di Nella la maestra buona che insegnava e non faceva del male. Passato e presente. «I diari, quelli che ho, iniziano nel 1955 fino al 2000. In realtà, come scrive lui stesso, aveva cominciato molto prima, ma quei quaderni li ha bruciati. Nelle pagine che ho letto mio padre racconta di tutto, ad esempio la telefonata che la notte del rastrellamento li ha avvisati salvandoli: poco tempo per decidere cosa fare, dove andare, come portar via i due genitori anziani e la madre paralizzata per metà. Cambiavano sempre indirizzo per non farsi trovare, vivevano di poco o nulla, piccoli lavori. La loro fortuna fu il convento delle Piccole sorelle dei poveri, lì furono accolti e salvati i miei nonni. Un altro ricordo è l’incontro in piazza con suo padre già molto anziano, con la paura di essere scoperti e catturati». Un lungo abbraccio tra padre e figlio in un giorno freddo in una piazza semi deserta. «Ma ci sono anche pagine meno tristi, di vita dopo la guerra. Pagine di grande affetto per me, in cui diceva quanto mi amava come mio fratello. La vita di tutti i giorni, fatti privati, di vita normale. E poi sempre la guerra, i ricordi e la rabbia per quello che era accaduto».

Il 1939 Paolo Padovani è costretto ad abbandonare il liceo perché ebreo. Da lì in poi tutto sarà diverso. Non più considerati persone, costretti a scappare «braccati, ancora ragazzi, come belve dalla stupida ferocia dei fascisti» scriveva Padovani. «Fu solo per un caso che mio padre si salvò. Questo se da una parte lo rendeva felice dall’altro era un problema sentiva gravare su di sé il senso di colpa per essere sopravvissuto agli altri, alla cugina. Non fu mai in grado di parlarmi di tutto questo e io fino alla sua morte non ho mai avuto la percezione di essere figlia di  un ebreo. Solo leggendo i suoi diari ne ho avuto coscienza. È stato come aprire un armadio e vedere tutti gli scheletri. Mio padre era un laico e dopo la guerra gli dava fastidio essere riconosciuto come ebreo. Come quando ormai anziano e malato l’urologo che lo aveva visitato chiese se fosse dei loro (un ebreo per via della circoncisione, ndr). Io non sono religiosa, non sono ebrea ma sento comunque una appartenenza. Il giorno della Memoria è importante. Forse però dovrebbe essere più di un giorno. Mio padre è stato molto affettuoso, coccolone, un nonno eccezionale. Un’altra tempra, nonostante la malattia ha resistito anni».

Gli appunti del diario di Padovani sono tanti, una controvita racchiusa in quelle pagine, un uomo colto, di spirito, divoratore di libri. A guerra finita si laureò, diventò ricercatore e poi bibliotecario fino ad arrivare a lavorare nella biblioteca della Camera dei deputati. «Non so, ci devo pensare e fare una selezione ma magari di quei diari ne farò un libro. Devo giustizia a questa famiglia, o no?».

 

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