Pane e calcio

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“Arigatou!, grazie!” Puntualmente pizzicato dal rimpianto di non aver studiato, come suo padre gli rimproverava, Giovanni Trapattoni non ha trascurato di imparare qualche vocabolo in giapponese. Lo aveva già fatto col tedesco quando andò a guidare la panchina del Bayern di Monaco guadagnando lo scudetto del ’97. A 14 anni, quando, per il calcio, lasciò la scuola, a suo padre, che andava ripetendogli “il pallone non può bastare nella vita”, replicò, tentando di giustificarsi: “Col calcio conoscerò le lingue”. Erano già venuti su, a Cusano Milanino, quelli del Milan, a spiegare a papà Francesco che il piccolo Giuan, classe ’39, il biondino che si ubriacava di calcio fino a sfinirsi, aveva i numeri. Correva su ogni palla, la catturava e subito se ne sbarazzava: la metafora del mediano. Il padre se ne convinse e lo lasciò andare. Anche se gli venivano a mancare delle braccia: non era facile sfamare da solo sette figli col lavoro in fabbrica e nei campi. Ma capì: come aveva capito Maria che a 19 anni era partita per il convento. Andò persino a spiarlo a Varedo: dieci chilometri in bici per vedere, di nascosto, se gliela avevano raccontata giusta. Quando Giovanni debuttò in prima squadra in Coppa Italia, aveva la febbre, ma non lo disse a nessuno: “Era l’occasione della mia vita…”. Suo padre seppe dell’esordio dalla radio e ne ebbe a male, presagendo vicina la morte, che arrivò due giorni dopo. Giovanni voleva tornare a lavorare, ma Gipo Viani, patron del Milan, gli promise 15 mila lire al mese: “Non vi pentirete” assicurò alla famiglia. Che mai si pentì. Nella bacheca del Trap, brillano 20 trofei, 10 gli scudetti, tre da giocatore. Dall’estate 2000, l’uomo chiamato scudetto siede sulla panchina azzurra: conquistata la qualificazione sta per giocarsi il suo primo mondiale da commissario tecnico. “So che gli italiani, l’Italia tutta si aspetta un successo, – esordisce il Trap – visto come un secondo o un terzo posto, conquistati dai miei predecessori, non li hanno soddisfatti. Anche per questo, di fronte ad una competizione così difficile, serrata ed intensa, non potevo tener conto delle simpatie dei tifosi: dispiace sacrificare qualcuno, ma guardo alla responsabilità che ho davanti, e non alle ragioni del cuore. È necessario poter contare su un gruppo ben consolidato, di età media giovane, in buone condizioni di forma, con giocatori dotati di personalità ed esperienza, con certe caratteristiche tecniche, anche in vista di possibili sovrapposizioni di ruoli”. Il mondiale asiatico imporrà stressanti trasferimenti su grandi distanze, fra i luoghi di ritiro e gli stadi, distribuiti su due nazioni, condizioni climatiche di grande caldo e umidità. E, soprattutto, due partite alla settimana, sette in trenta giorni per chi arriva in finale. “Vincerà chi potrà contare sulle giuste condizioni fisiche, psichiche ed atletiche oltre che su una classe superiore – precisa il commissario tecnico degli azzurri -. Ma attenti: nella prima fase conterà molto l’aspetto agonistico e la determinazione; sarà una fase equilibrata perché sono componenti di cui dispongono molte squadre. Chi potrà contare su un gioco più tecnico e su giocatori in grado di risolvere da soli certe partite, risparmierà energie per la seconda fase, dove sarà determinante invece disporre di validi ricambi “. Tracciato il profilo della vincente non resta che pronunciarne il nome. Trapattoni non esita a sbilanciarsi: il suo archivio di videocassette, sulle partite di tutto il mondo, che ogni giorno, minuziosamente analizza, glielo consente: “La tradizione verrà rispettata, almeno ancora per questo mondiale. Argentina, Brasile, Francia restano le favorite. Ci mettiamo anche noi perché abbiamo un girone che dovrebbe farci accedere alle fasi finali. Attenzione all’Inghilterra”. Domanda: da chi potranno venire interessanti sorprese? “Cina, Corea e Giappone – risponde -: il calcio orientale è cresciuto in fretta ed è aggiornatissimo. E poi gli africani: hanno qualità di gioco, tecnica e danno spettacolo. Sul piano del risultato mancano ancora un po’ di tradizione e quindi di malizia”. Ma cosa rispondere a chi afferma che il miglior calcio si gioca oggi in Spagna e Inghilterra? “Sono stili diversi – precisa Trapattoni -, che privilegiano il divertimento, come è diverso il gioco in Francia o in Argentina. In Italia si vive di un antagonismo esasperato che spinge alla ricerca spasmodica del risultato, ma il nostro gioco non mi pare poi così brutto. Di certo da noi sarebbe improponibile un’azione costruita con venti passaggi, come in Spagna, magari senza concludere nulla”. A proposito di spettacolo, che fine hanno fatto i fantasisti, i famosi numeri dieci? Risposta senza esitazioni: “I numeri dieci nascono tali: la creatività, la genialità è qualcosa che non nasce sui banchi di scuola. Altrimenti basterebbe studiare disegno per diventare Picasso. I numeri dieci sono miracoli della natura”. Platini afferma che oggi, per vincere, basta un grande portiere e un ottimo attacco. Trapattoni è punto sul vivo. “Non basta un buon motore – sentenzia -, occorre una buona carrozzeria, dei freni che funzionano. Platini è intelligente, ma estremista: è per questo che non ha potuto fare l’allenatore. Non basta dire a, b, c: occorre arrivare fino alla z”. I mondiali debuttano in Asia, un continente in cui il calcio non ha tradizione. “Diffondere il calcio verso nuove frontiere – precisa ancora il commissario tecnico – può dare un contributo importante al recupero dell’immagine più genuina di questo sport. Non si allarga solo il mercato, potrebbe anche arrivare una boccata d’ossigeno a quel consumismo sportivo esasperato indotto dagli interessi economici”. Trapattoni, che oggi non guadagna spiccioli, non dimentica la tinozza di legno in cui la madre lo lavava dalla polvere della strada, l’unico paio di scarpini portati decine di volte a riparare, i dieci chilometri al giorno in bicicletta per andare ad allenarsi: “È sempre più necessario ritrovare una giusta misura. Dov’è finita l’etica sportiva? Gli investimenti smisurati degli sponsor devono far riflettere. Non solo: certe figure che si muovono accanto ai calciatori sono diventate più importanti di loro per averne saputo sfruttare l’immagine. Il giocattolo non si è ancora rotto, ma siamo al limite: si dovrebbe smettere di speculare senza regole su talenti umani, su giovani calciatori, come se fossero macchine indistruttibili. È ora che l’acqua rientri nel suo alveo naturale”. Ogni frase finale denuncia il gusto che il Trap nutre per la parola ad effetto: un lessico ineguagliabile il suo, irraggiungibile, qualche volta persino incomprensibile, che lo ha reso famoso, ed oltremodo simpatico. Come il suo comportamento a bordo campo, uno spettacolo nello spettacolo: in piedi, proteso verso il rettangolo verde, o girato verso la panchina, cui snocciola una telecronaca minuziosa e personalizzata. Il tutto accompagnato da una mimica facciale esilarante e da una gestualità fantasiosa, dalla cravatta tormentata in continuazione, dal ripetitivo gesto di guardare l’orologio, e soprattutto dai fischi, i proverbiali fischi emessi con i due mignoli infilati in bocca. Non lo ama solo il pubblico, lo amano i ragazzi, professionisti che rispetta e da cui ottiene rispetto perché il Trap, dicono, li guarda negli occhi. Lo stesso rispetto che incuteva ed offriva ad i suoi avversari in campo: deciso, ma corretto; non un fenomeno, ma un maratoneta. Trapattoni, che è andato al sodo, fermando Pelè ed Eusebio, passa oggi per sparagnino – perché al 75esimo sostituisce un attaccante con un centrocampista o un difensore – per un meticoloso, un perfezionista, per un uomo che non piange per il passato, detesta gli alibi e si concentra su come rimediare agli errori commessi. E prega, pochi minuti ogni giorno, “per ammorbidirmi” spiega. “Io non sono né studiato, né preparato: – si schermisce – sono così, rido e scherzo, mi arrabbio e mi appassiono come facevo da ragazzo. Sono rimasto sempre quello, anche se con il tempo qualcosa si è smussato: adesso cerco di riflettere e a volte conto fino a tre prima di…”. Mancano pochi giorni all’esordio mondiale contro l’Ecuador: mister, che si fa adesso? “Dopo le amichevoli – risponde – è venuto il tempo della rifinitura: in parte tecnico- tattica, ma soprattutto fisica, per avere in condizione ottimale chi ha faticato di più l’ultimo periodo, e psicologica, per far sì che non nascano rivalità, magari per un articolo apparso sui giornali italiani”. La fama di tecnico condannato a vincere non lo sfiora: l’avventura nippo- coreana lo affascina prima che preoccuparlo. E poi dicono che è fortunato: “È vero: ho trovato tutti passaggio a livello alzati. Forse ho inventato il Telepass senza saperlo”. Ganbate!, buona fortuna!, caro Trap.

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