Palermo-Livorno: storie di acque

I “castelletti” e il Cisternone: strutture di pubblica utilità, espressione di un genio ingegneristico che viene da lontano
Livorno
Interno del Cisternone di Livorno (1828/29-1842), opera di Pasquale Poccianti (1774-1858). Autore: Etienne (Li) Creative Commons Wikipedia

Attirati dalle bellezze artistiche delle nostre città, facciamo meno caso a certe testimonianze del genio ingegneristico dell’uomo. Prendiamo l’esempio di Palermo, città perennemente assetata d’acqua, specie nelle calure estive. Al visitatore che si aggira nell’area urbana, ma anche nell’agro palermitano, può capitare di notare, mimetizzate fra gli edifici o in corrispondenza dell’antica cinta muraria, alcune curiose torrette di mattoni alte fino a 10 metri, il cui scopo rimane ai più ignoto. Ridotte a ruderi ma per lo più abbastanza integre, se ne trovano, per citarne solo alcune, in piazza Porta Montalto, a Porta Sant’Agata, al mercato di Ballarò, alla Vucciria, nel parco di villa Florio Pignatelli, nel quartiere arabo della Kalsa, a pochi passi dal Teatro Massimo, ma anche alla Favorita.

Livorno
Piazzetta o cortile delle Sette Fate, Torre o torretta dell’acqua. Pressi di Piazza Santa Chiara. Autore: Effems, Wikipedia Creative commons

Sono in tutto 19, un esiguo resto di un più vasto sistema di distribuzione dell’acqua utilizzato a Palermo a partire dal ’400 fino agli inizi del XX secolo. Tale sistema, che sfruttava il principio dei vasi comunicanti, permetteva all’acqua proveniente da tre sorgenti della Conca d’Oro, incanalata in tubature di terracotta sotterranee (gli incatusati) e poi imbrigliata in vasche di raccolta, di arrivare fin sulla sommità di queste torri, la cui altezza era pari a quella della fonte di provenienza: ciò che assicurava una pressione tale da ottenere un flusso idrico praticamente costante.

Sulla cima di ogni “castelletto” (castidditto in palermitano) o “torre d’acqua”, il prezioso liquido veniva raccolto in vaschette dette “urne” o “giarre”, per poi tracimare in nuove tubature e raggiungere i castelletti secondari addossati alle pareti esterne degli edifici da servire; da qui, sempre scorrendo in tubi di terracotta (catusi, dall’arabo qādūs), partiva per l’ultima tappa: le singole abitazioni dei diversi quartieri, le fontane pubbliche e i servizi di irrigazione.

L’acqua non veniva concessa a titolo gratuito, ma era venduta e distribuita dai fontanieri con l’aiuto di garzoni, calcolando – grazie al diverso calibro dei catusi – il volume di liquido da erogare a ciascun utente. Frequenti, purtroppo, erano le perdite idriche dovute alla rottura dei tubi in seguito a sbalzi di pressione. Un altro inconveniente non secondario era la scarsa igiene: causa le fragili giunture delle tubature, si verificavano all’ordine del giorno infiltrazioni di piante e insetti e perfino contaminazioni con i pozzi neri. Del resto la stessa popolazione era solita conservare la propria riserva idrica in antigienici contenitori all’esterno delle abitazioni.

Carenza igienica e dispersione incontrollata delle acque cessarono nel 1897 con l’inaugurazione dell’acquedotto dello Scillato (58 km) che sfruttava le sorgenti perenni delle Madonie; di qui la graduale disattivazione della vetusta rete dei “castelletti”, l’ultimo dei quali resistette fino al 1970.

Gli studiosi fanno risalire queste strutture agli antichi romani, maestri di alta ingegneria (un esempio a Pompei, dove sono visibili sia il terminale dell’acquedotto del Serino, sia i-pilastri sui quali correva la rete di distribuzione). Tramontato l’impero romano, il sistema venne riportato in auge, in Sicilia, all’epoca della dominazione degli arabi, espertissimi nell’arte della captazione e del rifornimento idrico in zone desertiche.

Trasferiamoci ora a Livorno. Questa “creazione” dei Medici signori di Toscana nel XVI secolo, che ne fecero il porto commerciale di Firenze e un baluardo contro le incursioni saracene, non è soltanto la Fortezza Vecchia e Nuova, la Terrazza Mascagni, il Mercato delle Vettovaglie e il suo ricco centro storico con il Monumento dei Quattro Mori, ma offre anche in zone meno frequentate dai turisti sorprese non sempre adeguatamente valorizzate.

È il caso del Cisternone, un monumentale serbatoio (38 metri in larghezza e 42 in lunghezza), realizzato nella prima metà del 1800 dall’architetto aretino Pasquale Poccianti per l’approvvigionamento idrico di Livorno: un’opera ancor oggi funzionante, situata ai margini della città ottocentesca. Preceduta da un portico colonnato, sembra una sorta di tempio neoclassico sormontato da una semicupola a cassettoni che ricorda quella del Pantheon. Lo stesso interno, con le sue volte a vela sorrette da pilastri emergenti dalle acque, suggerisce l’idea di un tempio a 5 navate. Immediato è il richiamo alla “Piscina Mirabilis” dei Campi Flegrei, che servì al rifornimento d’acqua della flotta romana stanziata a Miseno.

Rappresenta, la Gran Conserva (altro nome del Cisternone), la più significativa architettura neoclassica di tutta la Toscana e il più riuscito tentativo, almeno in Italia, di realizzare i sogni degli architetti visionari francesi. Strette, infatti, sono le analogie con le architetture di Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux, celebri per i loro progetti utopici, dalle forme semplici e ben definite. Evidente è anche l’influenza dell’architettura romana, non solo nella semicupola a mo’ di conchiglia sul prospetto, ma anche nelle grandi finestre a lunetta semicircolare, tipiche delle strutture termali dell’antichità, sulle facciate dei due corpi di fabbrica ai lati del portico.

Ad alimentare il Cisternone sono le sorgenti di Colognole, piccolo borgo nei pressi del Monte Maggiore, seconda cima delle Colline Livornesi, tramite l’Acquedotto Leopoldino: altra opera di notevole interesse architettonico, iniziata da Ferdinando III di Asburgo-Lorena nel 1793 e terminata solo sotto il regno della regina d’Etruria Maria Luisa di Borbone-Spagna (1782-1824). Con un percorso di circa 17 km questo mirabile condotto in pietra arenaria, oggi purtroppo in condizioni di grave degrado in alcune tratte, attraversa paesaggi e boschi stupendi con trafori, gallerie e arcate fino alla destinazione finale di Livorno.

Scenario per le riprese di due film del 1962 e 2002 – I sequestrati di Altona di Vittorio De Sica e Il diario di Matilde Manzoni di Lino Capolicchio –, attualmente la Gran Conserva apre i suoi battenti al pubblico solo in occasioni straordinarie, come le Giornate Fai di Primavera. È allora che, in un silenzio rotto solo da gorgoglìi e in una penombra catacombale, ammirando il genio ingegneristico e la sobria bellezza di una tale struttura acquatica, si è pervasi quasi da un senso di sacro. Non a caso i nostri antenati sacralizzavano le sorgenti e gli anfratti che custodivano il prezioso liquido senza il quale non può esistere vita.

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