Orphée et Euridice alla Scala

L'opera in tre atti di Gluck, nella versione francese del 1774, grazie alla direzione scrupolosa di Michele Mariotti, all'orchestra in stato di grazia e all'allestimento, si offre come uno spettacolo godibile e affascinante.

Ci sono spettacoli che fanno storia. Non perchè siano particolarmente estrosi, ma perché l’unità tra musica, direzione d’orchestra, cast e regia dà luogo ad un risultato di bellezza. E di musica bellissima, ispirata da cima a fondo, è piena l’opera in tre atti di Gluck, nella versione francese del 1774, data  la prima volta nel teatro milanese con la produzione del Covent Garden di Londra.

Il mito narrato da Ovidio nelle Metaformosi è noto: il cantore Orfeo con la sua cetra ammansisce le belve, ma ha perso la sposa Euridice, morsa da un serpente. Scende negli Inferi per riaverla, la ottiene a patto che non si volti indietro a guardarla  finché non sarà uscito dall’Ade. Lei però non capisce il suo atteggiamento, pensa che non l’ami più e ottiene alla  fine di farlo cedere, tornando a morire. Orfeo vorrebbe uccidersi, ma Amore fa risorger  l’amata e trionfa.

Gluck e il librettista francese Pierre-Louis Moline hanno riadattato la versione italiana di Ranieri de’ Calzabigi del 1762 con un finale ottimista, tipico della sensibilità illuminista. L’opera, preceduta dalla sinfonia, è una razionale sequenza di recitativi, arie, duetti, cori e danze, l’una conseguente all’altra, con una simmetria lucida, che non impedisce all’ispirazione di fluire.

Una musica cristallina si piega a pathos, nostalgia, gaiezza, dramma, leggerezza.  I recitativi sono chiari, le danze che inframmezzano le scene e concludono l’opera brillano per fuoco (la danza delle Furie), armonie  soavi (la danza degli Spiriti beati con l’assolo del flauto ha qualcosa di celestiale) e senso del trionfo. Le arie acquistano una particolare grazia. La celebre “Che farò senza Euridice” diventata nell’edizione francese per tenore “J’ai perdu mon Euridice“, appare improvvisa, introdotta dai violini, melodia nobile e semplice: da qui partiranno forse altre arie patetiche, da “Dove sono i bei momenti” ( Nozze di Figaro) ad “Ah, non credea mirarti” (Sonnambula), autentici sospiri luminosi. Ma tutta l’opera brilla di luce.

Avere colto questo aspetto è merito, prima di tutto, della direzione scrupolosa di Michele Mariotti, che ha condotto l’orchestra in stato di grazia – morbida, limpida, dirompente – alle impennate, alle soavità cantabili, ai momenti precipitosi con gesto sicuro, elegante, preciso.

Protagonista Juan Diego Flòrez nella piena maturità dei mezzi vocali: la voce irrobustita, il fraseggio nobile, il legato morbido e l’acuto squillante insieme ad una prova attoriale piena di pathos, hanno creato un Orfeo settecentesco nel canto e moderno nell’intensità recitativa, in abiti contemporanei come tutti, compreso l’ottimo coro,  Christiane Karg (delicata Euridice) e Fatma Said (robusta Amore).

L’allestimento londinese, firmato da Hofesh Shechter e John Fulljames è stupendo, non per estrose e incomprensibili  invenzioni, ma per l’essenzialità, il rispetto per la musica gluckiana. L’orchestra sul palco che sale e scende a seconda dei momenti, il soffitto ramato da cui fluiscono raggi di luce che si scuriscono o si espandono nelle diverse scene, il gioco di luci che crea l’aria onirica della metamorfosi dove l’amore vince la morte e la Hofesh Shechter Company che offre saggi di balletto ora furioso ora fantasioso, in un intreccio di corpi, di moti fisici e dell’anima, danno vita ad una”azione drammatica“- come recita il libretto – di rara puntualità e sintonia fra tutte le componenti di uno spettacolo affascinante. Da ricordare, insieme alla perfetta veste musicale.

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