Come non invecchiare bene

Sugli schermi, Rifkin’s Festival, l’ultima commedia scritta e diretta da Woody Allen. Una riflessione agrodolce sulle illusioni della vita. Dal 6 maggio

Che Allen sia un’ottimista sfegatato nessuno ci crede. Che osservi la vita con una punta amarognola tutti lo sanno. Che le sue battute siano spesso – specie nel passato – esilaranti, anche.

Ora, nei panni di Mort Rifkin (Wallace Shawn, semplicemente fantastico tanto è umano) è un fanatico ex insegnante di cinema classico, sposato con Sue (Gina Gershon, altrettanto disinvolta), addetto stampa al Festival di San Sebastian, in Spagna.

Lui sogna il grande romanzo che lo faccia catapultare fra gli scrittori di serie A, lei è stanca di un matrimonio abitudinario e rivolge le sue attenzioni al giovane regista Philippe (Louis Garrel), opportunista mediatico e narciso, osannato come un genio.

Mort, ossessionato dai film di Fellini, Bergman, Godard, Truffaut e Bunuel è infastidito dagli elogi sperticati verso Philippe, occasione per Allen di battute al vetriolo sugli attuali giovani registi che, come questo Philippe, cavalcano la tigre mediatica e addirittura pensano di contribuire alla pace tra Israele e i palestinesi con i loro film che vorrebbero fossero visti all’Onu.

L’umore di Mort migliora incontrando la dottoressa spagnola Jo Rojas (Elena Anaya), vittima cosciente di un legame “aperto” e fra i due nasce una amicizia aperta e sincera, basata sul comune amore dei film classici. Il cinema salverà Mort dal fallimento del matrimonio, dalla sfiducia e dalla morte?

Molto autobiografico, il racconto di Allen si snoda, con il suo consueto spiritello caustico, fra il suo essere un ebreo atipico (il rabbino: «Non osservi lo shabbat, non sei mai stato in Israele , non credi in Dio, che ebreo sei?!»), il disincanto sull’amore e sulla vita di coppia, il senso di fallimento nella vita («Altro che scrittore, devo continuare a insegnare cinema, a leggere non a scrivere romanzi»), l’amore per il grande cinema di “valori” e di senso della vita (citazioni in bianco e nero in forma di incubi-sogni) e le grandi domande.

La più forte, quella sulla morte nella citazione del Settimo sigillo di Bergman: lui vorrebbe morire, ma la Morte gli consiglia di pensare alla salute, tanto lei verrà e lui non la vorrebbe allora certo.

Il risultato, nella splendida fotografia di Vittorio Storaro, è semplice. Allen ormai anziano, non si nutre di illusioni: amore, arte, celebrità sono fumo, cose passeggere. Il cinema salva? Forse, un po’. Intanto, viviamo giorno per giorno senza attendere risposta (non la dà lo psicanalista a cui Mort racconta il suo festival).

Il futuro è ignoto. Al di là delle battute, ci resta forse una speranza nella vita che ci rimane.

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