No all’autonomia differenziata a colpi di maggioranza

La riforma del Titolo V della Costituzione italiana con la modifica del rapporto tra Stato ed enti periferici non può essere ridotta a uno scontro tra governo e opposizione, fatto di numeri o di sole maggioranze, ma richiede un ampliamento della base del dialogo.

È una partita molto impegnativa quella che il governo sta cercando di giocare. In ballo due riforme profonde dello Stato. Da un lato l’autonomia differenziata, resa possibile, nel 2001, dalla ritrascrizione del Titolo V della Costituzione italiana con la modifica del rapporto tra Stato ed enti periferici, dall’altro la riformulazione dello Stato in senso “presidenziale”.

Riforme profonde, in grado di trasformare il Paese e i diritti delle persone. Riforme, dunque, che richiedono il contributo di tutti, il dialogo tra maggioranza e opposizione in Parlamento, una discussione ampia nella società e nessuna forzatura. L’opposto di quanto ha detto il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Roberto Calderoli. «La sinistra e Conte dovrebbero prendere atto che hanno perso le elezioni – ha riferito, l’otto maggio, in una intervista al Corriere della Sera –. Se il loro ruolo vuole essere esercitato soltanto come diritto di veto, non ce l’hanno. Io suggerisco loro di fare proposte e correzioni. Se hanno maturato il lutto, bene, Se no, se ne riparla tra cinque anni». Dichiarazioni contorte, che lasciano non solo perplessi, ma addirittura sconcertati. Soprattutto se si tiene conto dei risultati elettorali.

Alle ultime elezioni gli aventi diritto al voto erano oltre 46 milioni di italiani, ma i votanti sono stati appena 29 milioni 355 mila, il 63 per cento, uno dei più bassi risultati della storia repubblicana. Il 37 per cento di elettori che ha disertato le urne dovrebbe preoccupare, sia per la natura della democrazia, sia per la rappresentatività di chi vorrebbe avviare delle riforme profonde dello Stato. La compagine di centrodestra, che esprime il governo, ha totalizzato oltre 12 milioni di voti, pari al 43 per cento dei votanti, quella di centrosinistra 7 milioni e trecentomila voti, pari al 26 per cento. Il resto è andato agli altri partiti.

Chi governa ha un consenso di appena il 26 per cento, poco più di un quarto dell’intero corpo elettorale. Può forse dirsi rappresentativo degli italiani? È un aspetto che meriterebbe un’attenta riflessione sull’idea di democrazia che va diffondendosi. «Il governo democratico – chiarisce il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa – è definito a partire dall’attribuzione, da parte del popolo, di poteri e funzioni, che vengono esercitati a suo nome, per suo conto e a suo favore; è evidente, dunque, che ogni democrazia deve essere partecipativa. Ciò comporta che i vari soggetti della comunità civile, ad ogni suo livello, siano informati, ascoltati e coinvolti nell’esercizio delle funzioni che essa svolge».

La democrazia, insomma, non può prescindere da un ampliamento del coinvolgimento di tutti i soggetti che possono intervenire in un processo, specie se in presenza di riforme profonde. Secondo Giorgio La Pira, che ne scrive in Premesse della politica, «uno Stato di ispirazione cristiana  tende a costituirsi su basi democratiche: su basi, cioè, che traducano nell’ordine politico interno quel principio di ordinata eguaglianza e di meditata libertà e responsabilità umana che è un frutto maturo della civiltà cristiana».

Benché egli affronti la questione da un’ottica prettamente cristiana, le sue valutazioni e il suo punto di vista sono piuttosto utili per comprendere la qualità della democrazia, la quale non può essere ridotta a un fatto di numeri o di sole maggioranze, ma richiede un ampliamento della base del dialogo.

«E il dialogo, ogni dialogo, è aperto», evidenziava Aldo Moro, sulla scorta del pensiero di Jacques Maritain. «Eravamo chiamati ad andare al di là della mera tolleranza, della mera ammissione del dissenso per un incontro più profondo, per una autentica dialettica democratica».

Non un braccio di forza tra maggioranza e opposizione, dunque, non una contrapposizione frontale, come si evincerebbe dalle parole del ministro, ma una visione del tutto diversa della democrazia, più aperta alle idee e ai suggerimenti delle opposizioni e della società, più rappresentativa affinché meglio interpreti il bene comune e lo persegua.

Tuttavia, in presenza di riforme che si reggono su contropartite e su scambi di favori, da una parte l’autonomia differenziata richiesta dalla Lega, dall’altra il presidenzialismo perseguito da Fratelli d’Italia, che non su un disegno politico coerente e dialogico, è possibile immaginare una via che non porti allo scontro? La risposta è già nei numeri. Come già detto il 26 per cento dei suffragi totalizzati dal centrodestra è solo un quarto del corpo elettorale. Un po’ poco per rivendicare una reale rappresentanza politica.

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