Niente di nuovo dal pontile del G8

Ancora un secolo fa Heiligendamm contendeva alle spiagge di Ostenda i favori della nobiltà e dell’alta borghesia prussiana, all’ombra del castello degli Hohenzollern. Più a est, a San Pietroburgo, queste acque rallegravano gli ozi dorati dei Romanov. Qui le teste coronate d’Europa intrecciavano parentele che tuttavia non seppero scongiurare il bagno di sangue della Prima grande guerra mondiale. Sono rimaste, a ricucire nella memoria degli europei il ricordo di quegli anni, le dimore neoclassiche e liberty, ora restaurate in gran fretta dopo un secolo di incuria; e il vecchio pontile di legno che si allunga verso nord a rubare, in questa stagione zenitale, i riflessi ambrati delle notti di luce che il Baltico sa ancora regalare. Chissà quante volte su queste tavole traballanti si daranno ancora appuntamento i fantasmi della regina Vittoria e della zarina Alessandra; abbiamo visto passeggiare invece, enigmatici come si conviene ai protagonisti della storia, otto cosiddetti Grandi di oggi. Capi di Stato e di governo che, in realtà, ormai la storia più che progettare sembrano rincorrere. Ufficialmente nell’agenda del G8 questa volta le priorità erano due: quella dell’emergenza climatica, che vede ormai inconfutabili i segni del surriscaldamento del pianeta e postula la riduzione dei fattori che lo producono; e quello umanitario che vede un intero continente, cioè l’Africa, aggredito dalle malattie e dalla fame, soccombere, pur disponendo di immense risorse naturali, perché fatto perennemente oggetto di sfruttamento da parte di nuove presenze esterne. Il più recente colonialismo, oggi, è di matrice cinese e araba, come sempre in combutta con la parte corrotta della stessa classe dirigente indigena. A dispetto delle illusioni della vigilia, che promettevano un ravvedimento degli Stati Uniti più disponibili ad avvicinarsi ai parametri europei nell’abbattimento dei gas serra, si è rimasti nel vago delle promesse. Altrettanto dicasi a proposito degli impegni in favore dell’Africa, propensi solo – ma sarà vero? – a recuperare i ritardi nei versamenti promessi, senza alcun ritocco al rialzo. Ma c’era a Heiligendamm un altro vertice non in agenda che lievitava sotto sotto, pronuba l’Europa, guidata dall’ospitale cancelliere tedesco, l’infaticabile Merkel: quello riguardante il Trattato sugli armamenti convenzionali firmato nel 1990 e aggiornato nel 1999, ora minacciato di sospensione da parte del presidente russo Putin. Dopo gli sconcertanti anni Novanta, infatti, che hanno visto la potenza russa in caduta libera, oggi la nuova arma in mano a Putin è quella dell’energia, che trova l’Europa fortemente debitrice della Russia. Di contro la Nato ha piantato le sue bandiere fino in Estonia, a pochi chilometri dal San Pietroburgo, mentre si propone in Ucraina e in Georgia come possibile nuovo alleato. In questo contesto, la prospettiva di vedere sorgere nuovi impianti radar e qualche stazione missilistica, sia pure difensiva, in Polonia e Cechia, anche se in funzione antiraniana, non può piacere a Putin. Ed ecco il coup de théâtre, la proposta russa cioè di costruire quegli stessi impianti in una sua base nell’Azerbaijan. Di contro Bush non ha escluso di condividere con la Russia gli impianti polacchi. Insomma, dal timore di vedere riproporsi la guerra fredda, si potrebbero aprire prospettive di nuove collaborazioni. È vero che entrambi i presidenti, prossimi alla scadenza del loro mandato, giocano con abilità le loro carte per assicurarsi un posto meno grigio nella storia. Purché, diciamo noi, tutto non si concluda nuovamente alle spalle dell’Europa.

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