Nessuno tocchi i Rohingya

Continua l’offensiva dei ribelli bengalesi in territorio del Myanmar e la risposta dei militari coinvolge ancora una volta i profughi Rohingya, indifesi e vulnerabili
Rohingya

All’Angelus di domenica scorsa il Santo Padre ha voluto ricordare, oltre alle alluvioni in Bangladesh, «i nostri fratelli Rohingya», auspicando che si faccia tutto il possibile per aiutarli. Parole forti, che avranno un eco in tutto il mondo, ma soprattutto in Myanmar, dove papa Francesco andrà alla fine di novembre. Fervono già da tempo i preparativi per quello che si annuncia un viaggio in una delle periferie più “difficili” del mondo, in un paese buddhista che vede il piccolo gregge della Chiesa Cattolica prosperare silenziosamente, a servizio dei più poveri.

Purtroppo il movimento nazionalista, sostenuto da molti monaci buddhisti, continua a creare problemi per il nuovo governo civile (o quasi), dopo 70 anni di guerra civile (finora la più lunga al mondo). Il viaggio del Santo Padre è osteggiato da una piccolo minoranza nazionalista, ma tanto atteso dalla “gente di buona volontà”.

Il problema con i Rohingya va avanti da sempre, potremmo dire perché nessuno li vuole. Il Bangladesh ne accoglie già alcune centinaia di migliaia, e non vuole aprire le porte della frontiera col Myanmar per accogliere questa minoranza musulmano sunnita. La Malaysia ed l’Indonesia “fanno orecchie da mercante” ai continui appelli per l’accoglienza.

Nel Myanmar continuano gli attacchi nei villaggi musulmani per scacciare i Rohingya verso il Bangladesh: a complicare la situazione ci sono anche presunte bande di terroristi che attaccano le postazioni di polizia, causando morti e distruzione. Come risposta a tutto questo, i militari hanno evacuato i civili nelle zone degli scontri, ed inviato, poi, gli elicotteri, a sparare sulla gente in fuga. Sui Rohingya. Una volta questa povera gente è arrivata al confine col Bangladesh, ma solo 2000, nella scorsa notte, sono riusciti a passare, il resto è stato rimandato indietro, verso chi gli sparava contro.

Ieri, a pochi chilometri dal confine tra Myanmar e Thailandia, parlavo con un esperto il quale mi diceva: «Speriamo tanto nel viaggio del Santo Padre a Novembre nel nostro paese, in Myanmar. Anche da parte del governo c’è una grande attesa per questo evento. Si spera che il Santo Padre possa fare quello che nessuno è riuscito finora: trovare una soluzione al conflitto con i Rohingya, nello stato del Rakhine, ed una vera collaborazione col Bangladesh. Ci vuole una soluzione che possa placare gli animi, specialmente quelli dei nazionalisti, molto attivi contro I Rohingya.

«Ci vuole un miracolo – mi confida un diplomatico che preferisce rimanere anonimo –. Molti bravi buddhisti sperano che il Santo Padre possa aiutare il Myanmar ad andare avanti in questo momento così difficile, con i riflettori del mondo puntati troppo su di noi».

Conosco i profughi: i loro occhi sono molto simili, in tutte le etnie. Scuri e tristi. È difficile far sorridere un bambino che è dovuto fuggire nella foresta, e a cui qualcuno ha sparato contro. Molto difficile riuscire a riportare la pace nel suo cuore. E mentre scrivo questo articolo, ho davanti a me gli occhi di un’altra etnia perseguitata, i Karen.

Le parole del Santo Padre devono trovare uomini e donne disposti a fare qualcosa per i Rohingya, perché anche loro sono essere umani. Dopo 27 anni di Asia non capisco ancora come si possa trovare il coraggio di sparare a dei bambini. O meglio, conosco lo sguardo di chi impugna un’arma e ha il potere di vita o di morte su di te.

Come scrive Andrea Riccardi nel suo libro La forza disarmata della pace (Jaka book – 2016): «La pace è possibile e rappresenta la scelta più saggia, seppure non sempre comoda». Ed ancora: «La liberazione non deve per forza passare attraverso l’uso della violenza».

Io credo in questo, perchè conosco questa gente. Nessuno di noi ha il diritto di alzare la mano sui profughi indifesi. E possiamo dirlo per I Rohingya: «Nessuno alzi la mano contro di loro». Nessuno sia indifferente a questa immensa sofferenza che tocca ognuno di noi.

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