Nel carcere di Onitsha

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Onitsha, Nigeria. Dieci anni fa i Giovani per un mondo unito della città si chiesero dove fossero i più poveri, i più abbandonati. La risposta fu immediata: i più poveri dei poveri erano i carcerati della prigione locale. Duemila persone costrette a vivere in piccole celle, anche 80-90 insieme, senza potersi neanche sdraiare la notte per mancanza di spazio. Numerosi quelli che si trovavano dietro le sbarre per reati minimi, come piccoli furti, a causa di sentenze assurde. Un giovane commerciante, per esempio, accusato di aver rubato una scatola di lampadine, era stato condannato a 25 anni di detenzione. Nella prigione, inoltre, mancava tutto: cibo, medicine, vestiti, sapone… Nella disperazione generale regnava la legge della giungla: solo il più forte poteva sperare di uscire vivo da quell’inferno. “Ci sentivamo assolutamente impreparati – raccontano i giovani di Onitsha – per affrontare questo mondo di dolore. Però la nostra gente era lì, in prigione. Non potevamo chiudere gli occhi e far finta diniente. Era lì che dovevamo “morire”. E così, senza pensarci troppo, abbiamo cominciato. Non avevamo, per così dire, né oro né argento da portare loro, ma ciò che avevamo potevamo darlo: il vangelo, le nostre esperienze con la parola di Dio vissuta. E non avremmo mai immaginato la rivoluzione che ciò avrebbe portato in quell’ambiente”. Quando si recarono per la prima volta nel carcere, incontrarono una trentina di detenuti, tra cui cinque o sei donne, che hanno accolto immediatamente la nostra proposta, forse perché erano talmente disperati che ogni minima luce li attirava. E si sono messi sul serio a vivere il vangelo. “Quando siamo tornati per la seconda volta – continuano i giovani – ci hanno raccontato numerose esperienze concrete. La Parola di vita che si viveva quel mese era presa dagli Atti: “E fra loro avevano tutto in comune””. Una parola, questa, che sembrava proprio il contrario della legge che vigeva nel carcere. Eppure la gioia dei detenuti era fuori dal comune. “Essendo il responsabile della mia cella – raccontava ad esempio Ekewasi – ho il diritto di tenere per me la metà di quello che gli altri ricevono in cibo, medicine e vestiario. Ma la Parola di vita mi diceva di dover cambiare. E così ho tenuto per me solo la mia porzione, e ho dato agli altri la loro parte, tutta intera. Non solo, ma quattro dei miei compagni erano stati messi nella cella di punizione e non ricevevano niente da mangiare. Ho condiviso il mio cibo con loro e ho scoperto che più davo, più ero contento”. Da quel momento ha avuto inizio una sorta di “gara di generosità” che ha letteralmente cambiato la vita nella prigione. “Naturalmente – raccontano ancora i giovani di Onitsha – ci siamo anche dati da fare per procurare cibo, vestiti e medicine per i carcerati. Ma, quando portavamo queste cose ai detenuti non le tenevano per sé, ma le portavano a quelle persone che ne avevano ancora più bisogno”. Raccontava ad esempio Amaka: “Da quando la Parola di vita è arrivata in prigione, tutto è cambiato. Prima, per avere un pezzo di sapone, dovevi pagarlo con l’unico pezzo di carne che ricevevi al mese. Adesso c’è una grande solidarietà tra tutti, e i pezzi di sapone li puoi ricevere anche gratis”. Le prime esperienze giravano tutte intorno al “dare”. Ma ben presto la parola ha cominciato a rivoluzionare anche altri aspetti della vita. Christian diceva ad esempio di sé: “Ero una persona molto dura e chi non mi dava retta nella cella lo trattavo a calci. A differenza di tanti altri io mi trovo in carcere perché veramente ho fatto del male. La parola: “Amate i vostri nemici” mi ha cambiato completamente. All’inizio non ne volevo sapere, ma non mi lasciava in pace vedere gli altri che erano contenti vivendo così. Allora ci ho provato. Ed ha funzionato. Invece di dare un calcio stavo zitto e addirittura facevo un sorriso e mi sono sentito molto meglio di quando distribuivo botte a destra e a sinistra. Dopo una settimana che cercavo di vivere così, dovevamo eleggere il capo della nostra cella e con mia grande sorpresa gli altri hanno votato per me”. Da parte sua racconta Ann: “Da quando sono in prigione mi domandavo perché mia cognata non venisse mai a farmi visita. Un giorno mia madre mi ha scritto dicendomi che lei faceva soffrire molto mio fratello e che non si comportava bene. Ero triste e non sapevo cosa fare. Più tardi, mentre leggevo la Parola di vita, mi è venuto in mente di spedirla anche a lei. Dopo qualche tempo mia cognata è venuta a visitarmi. Ha pianto, dicendo che tutto ciò che io sapevo di lei era vero. Era rimasta colpita perché non si sarebbe mai aspettata che io le parlassi di Dio. Mi ha chiesto scusa e mi ha promesso di cambiare vita anche lei”. E si potrebbe continuare ancora a lungo nel raccontare quanto è successo in questi dieci anni. “Sin dall’inizio – continuano i giovani di Onitsha – il direttore della prigione e le guardie carcerarie sono stati coinvolti in questa rete d’amore; alcuni di loro vivono la Parola di vita. Il direttore ci apre le porte necessarie. Spesso sono le guardie che ci segnalano i prigionieri più abbandonati. Così Samuel, un ragazzo ammalato gravemente. I suoi compagni ci hanno detto che la sera prima stava quasi per morire. Tornando a casa abbiamo preparato del cibo speciale e comprato delle medicine, e siamo anche andati a cercare un sacerdote. Il ragazzo desiderava tanto essere battezzato, e così ha ricevuto il nome di Samuel. Con questo piccolo contributo abbiamo potuto salvargli la vita. Ora sta bene. Abbiamo anche saputo che non aveva ancora passato il processo. Abbiamo seguito allora la pratica burocratica. Alla fine servivano dei soldi di cauzione per liberarlo. I Giovani per un mondo unito di un altro paese ci hanno aiutato; così, grazie a questi soldi, Samuel è potuto tornare libero”. Logicamente, i giovani di Onitsha ben presto si sono dovuti occupare anche di altri prigionieri che venivano arrestati senza processo. Hanno trovato la collaborazione di avvocati e poliziotti. a servizio dei carcerati. “Abbiamo assistito – continuano – ad una vera reazione a catena; e piano piano ora si diffonde nell’opinione pubblica un’idea opposta rispetto a quella che regna comunemente dalle nostri parti, secondo la quale ogni ladro deve morire. Un processo faticoso e lento, certo; però più volte abbiamo visto come proprio quando ci sembra che niente potrà mai cambiare succede che qualcuno venga liberato dopo tanti anni di carcere. Naturalmente ci occupiamo di loro anche quando si ritrovano liberi. Abbiamo coinvolto tanti amici in quest’azione e quasi sempre troviamo un lavoro per loro, un posto dove abitare. Alcuni ex-carcerati continuano con noi a fare visita ai prigionieri”. Oggi il carcere ospita “solo” mille detenuti, e le loro condizioni di vita sono un po’ migliorate. I Giovani per un mondo unito si ritrovano regolarmente con un centinaio di detenuti. Si è creato un legame rispettoso, di riconoscenza per gli effetti della Parola di vita vissuta. I prigionieri hanno voluto scrivere anche a Chiara Lubich: “La Parola di vita ha fatto tanto per incoraggiarci, per rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Dio, credendo che essere in prigione non è la fine del mondo. Abbiamo iniziato a vivere in pace tra noi, nonostante apparteniamo a diverse tribù, religioni e paesi. Abbiamo fatto dell’amore il punto focale della nostra vita quotidiana”. orire per la propia gente Nella primavera del 1973, Chiara Lubich disse ai giovani dei Focolari: “Dobbiamo dilatare il cuore sui bisogni di tutta l’umanità che soffre; però bisogna anche essere radicati nella propria terra e “morire”, cioè impegnarsi per la propria gente, per i più poveri”. Un appello che ha dato vita a innumerevoli azioni e iniziative nei cinque continenti, a favore di bambini di strada, anziani abbandonati, portatori di handicap, drogati,mutilati di guerra, zingari, senzatetto, terremotati, lebbrosi, profughi, carcerati. Il “Morire per la propria gente” è diventato il distintivo di tutte le generazioni di giovani del movimento che si sono susseguite in questi anni.

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