Natale sul confine Myanmar-Thailandia

Un Natale celebrato in anticipo, a Hua kalok e Naw Bo De, tra la gente che assiste alla celebrazione seduta per terra: un momento semplice e ricco di significato trascorso in mezzo a chi fugge dalla povertà e dalla guerra
Rifugiati sul confine Myanmar Thailandia foto archivio (AP Photo/Chiraunth Rungjamratratsami)

Niente cattedrali stavolta, niente incenso o canti solenni, nessun impianto di riscaldamento, senza gente imbellettata e con abiti stirati e profumati. Stavolta sono seduto per terra, in mezzo a loro, la mia gente, come amo chiamarla: i karen.

Qualche abito bellino e modesto, di seconda mano, arrivato da Bangkok nei sacchi della condivisione. Ma la faccia è doverosamente imbellettata con la crema thanaka (ottentuta dalla corteccia di alcuni alberi), di colore giallastro. E tanto raccoglimento.

Siamo una trentina di persone, anche buddhisti, in una casa a circa 2 km dal confine con il Myanmar. Abbiamo celebrato il Natale insieme, seduti per terra. Niente organo, solo la voce della gente. Qualche immancabile zanzara, ed ho pregato che non ci fosse la famigerata Aedes Aegypti, che ho soprannominato “la fidanzata”: mi ha già beccato 3 volte, a detta del medico, e aspetto le altre 2 varianti che non mi hanno ancora punto: provocano emorragie interne, che in alcuni pazienti sono inarrestabili.

Tra i karen e la gente che è scappata nella foresta è quasi una malattia d’obbligo, nel senso che prima o poi la becchi e devi pregare di non morire: non c’è un vaccino, infatti. Se ci fosse, lo farei subito: qui ai tropici, ho imparato a non diffidare dei vaccini.

Con alcuni amici abbiamo passato 3 giorni in questo posto sperduto nel nordovest della Thailandia. Il pulmino con il quale abbiamo viaggiato stavolta era pieno come un uovo: così tanti vestiti usati che non c’entrava davvero più nulla.

O almeno lo pensavamo fino a quando siamo arrivati alla fabbrica di spaghetti di riso, a Kamphenphet, dove sono riusciti ad infilare altri 80 kg di merce: tutto gratis. Poi via, su per le montagne, verso Mae Sot. Ai posti di blocco, i militari ci hanno fermato e mandato dalla polizia di frontiera: «Dove andate? Chi siete? Ah, italiani! E che andate a fare a Mae Sot?».

Mae Sot non è certo un posto da visitare per turismo: si spara.

«Andiamo a portare un po’ di roba alla gente», rispondo. «Andate a Phop Phra?», e noi: «Certo che no!». Continua: «Quella è zona rossa… meglio che non andiate. Veramente tutta Mae Sot sarebbe zona rossa», aggiunge poi l’ufficiale della polizia di frontiera con la faccia di uno che pensa.

«Ma chi sono questi signori?», chiede poi guardando i miei compagni di viaggio. Rispondiamo con un: «Ecco i nostri passaporti con i visti». Ci guarda e ride: «Io sono stato in Europa: che bella! E come si viaggia bene, mica è pericoloso da voi, come qui!». E iniziamo a parlare: 10 minuti di chiacchiere e poi ci lascia andare. Anche stavolta siamo riusciti a passare.

Non è scontato riuscire ad arrivare in queste zone, per via di troppe storie che si intrecciano: mafia cinese, conflitto tra karen e forze governative del Myanmar, droga a non finire. Arrivati a destinazione, troviamo un gruppetto che ci aspetta: 35 mamme, tra le più abbandonate, da sole a curare i figli. Il posto è di una bellezza che incanta: valeva la pena di arrivare fino qui. Due giorni in mezzo a questa bella gente che sa cosa significhi essere felice per il solo fatto fatto di essere vivo.

Passare il fiume, cioè il confine, e arrivare sani e salvi sulla sponda thailandese è una tale fortuna, che non capita a tutti. E poi trovare dei vestiti, del cibo, delle medicine… e qualcuno che non ti spara se gli chiedi aiuto, è una grande benedizione nella vita. Seduto per terra, vedendo queste donne con i bambini (e pochi uomini) che pregano, penso ai profughi ucraini: anche loro magari saranno nella stessa situazione.

Ad un certo punto, penso: «Ma Dio, tu riesci ad ascoltare della gente che prega in un posto come Hua Kalok?». Le lacrime mi scendono sulle guance, e gli dico: «Certo, neppure tu sei nato in un palazzo imperiale. Non avevi coperte, non avevi carillon a forma di uccellini colorati che ti giravano sulla testa. Eri in una mangiatoia per animali ed avevi attorno a te altri ultimi come questi. Dio mio: ma come hai fatto? Anzi, meno male che lo hai fatto!», prego da solo… E mi accordo che siamo tutti seduti per terra, tutti poveri, tutti affamati, tutti bisognosi.

Anche noi come quel bambino di Betlemme. E quel bambino mi appare molto simile a questa gente, ai karen; simile agli ucraini, ai bambini del Sud Sudan e a tanti altri in giro per il mondo.

Ecco: questo è stato il mio Natale, mio e dei miei amici. E dopo Hua Kalok, siamo andati a Naw Bo De, un altro posto sperduto in mezzo alle piantagioni di granoturco: altri cristi affamati e con pochi vestiti, che vivono in capanne, se si possono chiamare così.

Qui a Naw Bo De, regalare un borsone a qualcuno, ha lo stesso valore di regalare una Toyota: perchè quando devi fuggire con la tua famiglia, ti seve un borsone, oppure una mezza valigia anche rotta: hai solo 20 minuti, magari 30, per raccogliere le tue cose e andare via, per i campi, in cerca di una nuova casa (ops, capanna) e una piantagione dove lavorare, e guadagnarti, se hai fortuna, il riso per le persone che ami. Questa è la vita di chi fugge: scappi dalla povertà, ma spesso lei scappa con te, non ti molla.

A questo Dio che nasce povero in mezzo ai poveri, io inizio a crederci. E quell’uomo a Roma, di nome Francesco, mi piace ascoltarlo: mi fa scoprire sempre meglio chi sia il Dio che nasce tra i poveri.

Buon Natale a tutti da Hua Kalok e Naw Bo De.

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