Moro, le potenze straniere, i servizi segreti e gli aiuti ai brigatisti

Il sequestro dello statista della Dc fu favorito da forze interne ed estere. Per quale motivo? E cosa c'entrava la P2? Il commento di Gianni Caso, presidente onorario della Corte di Cassazione, che fu giudice relatore ed estensore della sentenza d’appello nel primo e più importante dei cinque processi Moro
Luigi Berlinguer e Aldo Moro

Gianni Caso, presidente onorario della Corte di Cassazione, è stato il giudice relatore ed estensore della sentenza d’appello nel primo e più importante dei cinque processi Moro. Pubblichiamo l'intervista che ha rilasciato qualche tempo fa ad Anna Di Gioia, e lui che ci ha gentilmente inviato, che conferma – in qualche modo – quanto dichiarato all'Ansa dal poliziotto in pensione Enrico Rossi.

Ancora oggi si parla molto di "misteri" intorno al caso Moro, si dice ad esempio che non convince del tutto la verità emersa dai processi, secondo la quale le Br avrebbero agito solo per i propri obiettivi. Rispetto a questi commenti, quali valutazioni potrebbe proporci?
«La sentenza pubblicata nel 1985 si basa naturalmente sugli atti del processo e sui fatti fino ad allora accertati. Perciò, non fu oggetto del processo e della sentenza quanto ora sta emergendo. Ad esempio, poco tempo fa è stato pubblicato un libro intitolatoDoveva morire(Chiarelettere), in cui si sostiene apertamente la tesi del complotto e si auspica una nuova inchiesta giudiziaria. L’autore del libro è Ferdinando Imposimato, che è stato giudice istruttore del processo.

«Ma, limitandoci ora alla sentenza del 1985, già all’epoca erano emersi fatti e circostanze che mi colpirono, perché facevano vedere che l’azione delle Br, sebbene condotta dai brigatisti, fosse stata non ostacolata, ma in certo modo agevolata da altri. Nella sentenza ho citato alcuni di questi fatti. Per esempio, negli atti del processo trovai una segnalazione di servizio datata nei giorni del sequestro, con la quale si riferiva che, pedinando uno dei sospetti brigatisti, si era arrivati vicino alla tipografia clandestina delle Br (dove venivano stampati i loro comunicati). Questa segnalazione rimase senza seguito fino a dieci giorni circa dopo l’uccisione di Moro, quando la tipografia fu perquisita e furono arrestati diversi brigatisti che vi lavoravano. C’è da aggiungere che la macchina stampante era stata acquistata in un’asta militare a Forte Boccea.

«Altro fatto singolare riguarda il brigatista Prospero Gallinari che, in carcere a Treviso, venne fatto evadere nel 1976. Gallinari divenne il capo militare della “colonna romana” delle Br e fu uno degli artefici della strage di via Fani e del sequestro di Moro. C’è poi il “giallo” di via Gradoli, di cui molto si è parlato. Inoltre, solo a distanza di tempo fu scoperta e perquisita la base brigatista di Via Montenevoso a Milano, dove venne rinvenuta in circostanze non chiarite una copia del memoriale Moro. Resta il fatto inconfutabile che si cominciò a combattere seriamente le Br e con risultati positivi solo dopo l’eliminazione di Moro.

«In base alle suddette e ad altre circostanze appare verosimile che possa esserci stato da parte dei diversi apparati di sicurezza un atteggiamento non ostativo all’azione dei brigatisti. Deve ritenersi, poi, con abbastanza certezza che i Servizi segreti delle maggiori potenze sapessero dei piani delle Brigate rosse».

Come possiamo spiegarci questo atteggiamento di "favore" interno ed estero verso i brigatisti? Quali erano le ragioni per cui non fu contrastata per tempo la loro azione?

«È assai verosimile che il piano del sequestro di Aldo Moro realizzasse una convergenza di obiettivi di natura sia interna che internazionale. A questo riguardo bisogna tenere ben presente tutto il quadro geo-politico di quel periodo. A livello nazionale, importanti settori della politica erano contrari a qualsiasi accordo con i comunisti e auspicavano il ritorno a una politica di destra. Si trattava di forze conservatrici che si opponevano all’apertura a sinistra, e si erano già opposte in precedenza alla contestazione giovanile del ’68. Esse cercavano contemporaneamente, attraverso la "strategia della tensione", di diffondere l’opinione che era necessario un governo forte. Oltre alle stragi riconducibili a tale strategia, ci furono infatti vari tentativi di golpe. 

«In opposizione a questi tentativi eversivi, si formarono nell’estrema sinistra extra-parlamentare gruppi armati, come Lotta continua e Potere operaio, fino ad arrivare alle Brigate rosse. I brigatisti si erano formati all’ideologia marxista-leninista e i principali dirigenti delle Br si erano istruiti in Cecoslovacchia. C’è addirittura il sospetto, supportato da alcune testimonianze, di rapporti con i servizi segreti dell’Armata rossa.

«Le forze conservatrici agivano anche attraverso strutture occulte come la Loggia P2: è risultato che all’epoca del sequestro di Moro i capi dei Servizi segreti ed altri dirigenti delle forze armate facevano parte della P2. È da notare che i capi dei Servizi erano stati nominati dal governo Andreotti pochi mesi prima del sequestro. In questo clima così esasperato e teso, la Dc e il Pci presero posizione sia contro i tentativi eversivi di destra, sia contro il terrorismo di matrice marxista-lerninista ispirato dall’Unione Sovietica. Inoltre, a livello nazionale, la politica di solidarietà nazionale, auspicata da Moro e da Berlinguer (nella foto mentre si stringono la mano), non piaceva neanche ad alcuni settori dentro la Dc, i quali temevano che l’apertura al Partito comunista avrebbe potuto determinare la perdita del potere da parte della Democrazia cristiana.

«A livello internazionale, come ho detto, la politica di solidarietà nazionale non era ben vista né dagli Stati Uniti né dall’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti temevano che con l’ingresso nel governo del Partito comunista si indebolisse il fronte della Nato. I sovietici temevano che l’ingresso in Italia del Partito comunista nell’area democratica contagiasse i partiti comunisti di altre nazione dell’Est europeo. Inoltre non era accettata la politica mediorientale di Moro. È noto che durante un viaggio negli Stati Uniti Moro venne affrontato in modo duro dall’allora segretario di Stato americano, Kissinger.

«Quindi, riepilogando, in Italia c’erano due gravi emergenze: una rappresentata dai tentativi della Destra di arrivare ad un governo forte in funzione anticomunista, l’altra dal terrorismo di matrice ideologica, che mirava, anche nell’interesse del Patto di Varsavia, a destabilizzare l’Italia e a portarla fuori dal “blocco occidentale”. Moro sperava di far uscire l’Italia dalla suddetta grave situazione con il rafforzamento del processo democratico, coinvolgendo a tale scopo il Partito comunista perché portavoce di vasti settori dell’elettorato (la Dc e il Pci raccoglievano oltre il 70 per cento dei consensi). Questa politica, però, non piaceva molto né ai settori conservatori, né ad alcune frange della Dc. Inoltre non piaceva all’estero. Perciò, come ho detto, si può ragionevolmente ipotizzare che l’“operazione Moro” realizzasse una convergenza di obiettivi».

Se il disegno della solidarietà nazionale fosse andato avanti, lei crede che la storia politica italiana sarebbe stata diversa?

«Sì, senz’altro: non ci sarebbero state né la grave involuzione democratica verificatasi successivamente né l’enorme corruzione della vita pubblica che ne è seguita. Moro intravedeva questi pericoli per la democrazia in Italia. Per impedirli egli concepì che il coinvolgimento del Partito comunista nella dialettica democratica con una possibile alternanza di governo avrebbe potuto assicurare una vita politica più sana. Nel suo famoso ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Dc, del 28 febbraio 1978, Moro disse che, pur di salvare la democrazia in Italia, non bisognava avere paura di passare all’opposizione, procurandosi così l’avversione di una parte del suo partito. Da parte sua Berlinguer aveva iniziato a parlare di "questione morale", intravvedendo lo stesso pericolo di involuzione politica. Perciò, penso che il progetto di Moro avrebbe potuto dare un altro corso alla storia politica italiana».

Dai documenti che ho consultato la figura di Moro emerge come quella del politico ideale, di colui cioè che guarda al bene comune anche al costo di sacrificare la sua parte politica. Gli unici giudizi per così dire negativi che ho riscontrato hanno a che fare con il suo scarso decisionismo pratico: Moro sarebbe stato più un teorico-intellettuale che un pratico. Secondo lei, se proprio volessimo trovare in Moro qualche debolezza, che cosa potremmo dire?

«Non mi sembra di trovare nella figura di Moro e nella sua azione politica un connotato di debolezza. Semmai egli ha concepito un disegno politico molto ardimentoso, che gli è costato la vita. Moro, a mio avviso, è stato un martire. Aveva una formazione cristiana sicura, era amico di papa Montini, viveva la politica con vero spirito cristiano, per il bene comune. Credeva nella democrazia: dalla Costituente in poi aveva seguito una linea politica diretta a salvare e rafforzare la democrazia in Italia. Considero Moro un grande pilastro della democrazia italiana. Con la sua uccisione è stata tolta di mezzo in modo violento, e quindi sicuramente antidemocratico, tutta la sua linea politica, e ciò fa calare un’ombra di illegittimità democratica sulla politica italiana successiva».

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons