McLuhan, la follia profetica

100 anni fa nasceva colui che avrebbe intuito lo sviluppo del mondo dei mass media e di Internet.
Marshall McLuhan

Che sia un mito è poco ma sicuro. L’uomo è riuscito a esserlo ancora da vivo, al punto da farlo morire, perso com’era (il mito) in quella cultura consumistica che lui stesso (l’uomo) aveva contribuito a svelare e smascherare. È stato l’epigono di quella non-civiltà che lui stesso aveva denunciato come avventurosa, il simbolo pop di una cultura nascente che aveva trovato nei mass media non solo i propri strumenti, ma la sua stessa centralità. Come le icone pop di oggi, McLuhan è stato “massacrato” già da vivo: il suo pensiero è stato sottoposto a una operazione di sbriciolamento tale da ridurre la sua enorme creatività in aforismi monchi. Come la sua più celebre frase – «il medium è il messaggio» –, incomprensibile nei fatti senza l’aggiunta: «L’utente è il messaggio», che nessuno o quasi però ricorda. Si critica la sua creatività senza limiti e senza “paletti” accademici, ma non si riesce mai ad apprezzare abbastanza la sua straordinaria preveggenza, quello spirito profetico che lo ha portato, ad esempio, a immaginare la Rete, Internet, ben prima che gli albori dell’Arpa – rete di collegamento militare Usa – ne lasciassero appena intuire l’impetuoso futuro.

 

McLuhan, nato il 20 luglio 1911 a Edmonton in Canada, era cattolico: un convertito con i suoi massimalismi e le sue fobie. Fu capace – finché le forze glielo consentirono – di recarsi quotidianamente alla messa. Spesso trattava rudemente i suoi interlocutori non per convinzione – «trattava sempre le persone come individui dotati di anima», scrive Douglas Coupland, guru di Internet, nella sua recente biografia Marshall McLuhan, Isbn edizioni – ma semplicemente perché non riusciva a non andare dietro al flusso continuo di immagini, citazioni, suoni – come in un’immensa nuvola internettiana ante litteram – che si affollavano nel suo cervello, che tra l’altro “soffriva” per una circolazione sanguigna eccessiva. Era cattolico, dunque, ma non sbandierava la sua fede a ogni passo – e in questo era post-conciliare prima del tempo – preferendo mantenere la religione non tanto nella sfera privata quanto nello zoccolo culturale e umano che sorreggeva e motivava le sue elaborazioni.

 

Le sue opere principali sono due, indiscutibilmente, tra le tante: La galassia Gutenberg, del 1962, nella quale proponeva un fiume ininterrotto di idee, immagini e metafore proiettate nel futuro “non cartaceo”, o “non più solo cartaceo”, con una genialità proiettata nel futuro (ma nel rispetto del passato) fuori dal comune: «Lungi dallo sminuire la cultura meccanica di Gutenberg – scriveva –, dobbiamo sforzarci di conservarne i reali valori». L’altra sua opera fondamentale, del 1964, ha come titolo: Gli strumenti del comunicare. È forse il suo libro più completo, quello che ha saputo più di altri scavare nel nascente mondo digitale, suffragando le intenzioni profetiche con un’analisi serrata.

 

McLuhan è stato per tutto ciò un grande della massmediologia, anzi ne è stato il fondatore, assieme a un altro canadese, Harold Adams Innis, molto meno conosciuto ma non per questo meno importante. È stato però ridotto, come già detto, a icona, come spesso purtroppo accade ai pionieri. Andrebbe riscoperto non più come una rappresentazione del massmediologo, un’icona appunto del nostro computer, ma come una app, cioè come un simbolo, un rimando che ogni giorno permette di accedere a qualcosa di nuovo, di dimenticato e di sorprendente. Per ricordarci che i mass media vanno sempre e comunque inseriti in un orizzonte antropologico, quello dell’uomo libero e cosciente, non intrappolabile nelle trame del consumo e delle tecnologie. Le catastrofi predette da McLuhan – «guardiamo il presente in uno specchietto retrovisore. Arretriamo nel futuro» – non saranno allora ineluttabili. Ma possibili, o quanto possibili!

 

Un ulteriore risvolto culturale messo in luce da McLuhan è la congiunzione tra studi umanistici e letterari e la rivoluzione digitale. Marshall McLuhan era un grande esperto di letteratura inglese – aveva studiato a Cambridge – giungendo solo attraverso di essa alle straordinarie profezie del digitale. Si dice spesso ai ragazzi di buone speranze e promettenti capacità intellettuali di frequentare il liceo classico, «perché ti formerà a ogni professione». McLuhan ci dice che greco, latino e classicità varie «aiutano a mettere in prospettiva», come dice il cantante.

 

McLuhan è stato inoltre un antesignano dello studio delle reti e dei sistemi di reti. Col suo immaginifico linguaggio – anch’esso una rete che avvolgeva gli interlocutori con nuovi fili e nuovi nodi continuamente tenuti assieme dal suo cervello troppo acuto – riusciva a dimostrare come la rete fosse quel che tiene assieme pensiero e relazioni umane.

Per tutto questo McLuhan non deve essere dimenticato, ma nemmeno iconizzato. Deve piuttosto essere messo in rete. E deve essere compreso, soprattutto, alla luce dell’ultimissima fase della sua vita, quella in cui, colpito da ictus, perse l’uso della parola (riusciva solo a intonare un inno religioso!). Lui, maestro indiscusso della parola, era stato ridotto al silenzio. Mostrando come la comunicazione, ogni comunicazione, sia fatta di silenzio e parole. E come ogni parola si nutra di silenzio. E ogni silenzio racchiuda una parola.

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