Matassa Rai

È in atto un ridimensionamento della tv pubblica.  Da dove ripartire?
Manolo Martini e Isa Arrigoni conduttori di Trebisonda

La matassa. È una bella matassa da sbrogliare quella della Rai. A cominciare dai conti. Sempre più in rosso. Profondo rosso. Le previsioni di bilancio di quest’anno stimano un buco di 116 milioni. L’anno scorso erano stati 80 e due anni fa 40. Ogni anno si raddoppia il debito come il gioco a quiz che lanciò la Rai e ora rischia di affossarla. Che fa adesso la Rai: lascia o raddoppia? Lascia andare la barca alla deriva o reinveste sul servizio pubblico?

 

In realtà sarebbe molto semplice risanare il bilancio: basterebbe far pagare il canone, uno dei più bassi in Europa. Le entrate della Rai, infatti, provengono per il 50 per cento circa dal canone e il restante 50 per cento dalla raccolta pubblicitaria. Gli introiti del canone nel 2010 sono stimati sui 1.700 milioni di euro, ma l’evasione del canone raggiunge i 700 milioni l’anno. Una cifra enorme. Il 26,5 per cento delle famiglie e l’80 per cento dell’utenza speciale (gli esercizi commerciali, gli uffici, le associazioni) non lo pagano.

 

Il canone in bolletta

 

Il canone è un tributo obbligatorio come il bollo della macchina, ma la percezione comune della gente è che la Rai ha perso credibilità e non gli si riconosce più il ruolo di servizio pubblico. Quindi, pensano in tanti, non c’è più ragione di pagarlo. L’evasione del canone avviene soprattutto nel Meridione. Tra le regioni, la maglia nera va a Campania, Sicilia e Calabria; mentre fra le più virtuose ci sono Liguria, Alto Adige e Toscana.

 

Eppure si potrebbe far pagare il canone in uno di questi modi: rendere obbligatorio il pagamento del canone per chi paga la bolletta elettrica; oppure liberalizzare l’accesso agli archivi delle tv a pagamento; o, infine, stabilire che nella dichiarazione dei redditi occorra indicare se si è in possesso di un televisore.

Se è così relativamente semplice, perché non si fa? Per ragioni sostanzialmente politiche. Chi ha interesse che la Rai resti debole? O meglio, perché aiutare un’azienda che è percepita ostile al governo, nonostante gran parte della dirigenza sia filogovernativa? La maggioranza dei giornalisti, ed è vero, è contraria a un governo di centro destra, è abbastanza ideologizzato e in un referendum con percentuali bulgare ha sfiduciato, giustamente, Mauro Masi, il direttore generale. Inoltre, programmi di grande seguito come Annozero, Vieni via con me, Che tempo che fa, Report, Ballarò vivono spesso e volentieri di bordate antigovernative. A controbilanciare ci pensano soprattutto il Tg1, il Tg2 e Porta a Porta, per non parlare di Mediaset.

 

Nella matassa dei vari conflitti d’interesse, allora, perché mai si dovrebbe risanare un’azienda percepita come di sinistra? Meglio lasciarla sulla graticola a cuocere lentamente. Delle trattative, in realtà, cominciarono la scorsa primavera, ma non furono fiori di maggio. Santoro, uno dei grandi imputati, non firmò la sua fuoriuscita dalla Rai o il suo addomesticamento e restò nel limbo a tempo indeterminato – dicono in Rai – l’introduzione del pagamento del canone nella bolletta elettrica. Inoltre il canone appare come un tributo impopolare che, in vista di qualche elezione politica, è meglio evitare. Fece così, del resto, anche il governo di centro sinistra. Seguendo questa logica, si spiegherebbe facilmente il perché la Rai abbia rinunciato ai 60 milioni di Sky che, a sua volta, è un concorrente di Mediaset.

 

Il mistero della pubblicità

 

Ma il più grande mistero resta la raccolta pubblicitaria. Con il passaggio al digitale terrestre la Rai, rispetto a Mediaset, guadagna negli ultimi mesi quasi 7 punti di share. Perché non crescono le entrate derivate da una maggiore vendita di spazi pubblicitari? È vero, ci riferiamo ai nuovi canali digitali terrestri della Rai, soprattutto su Rai4, ma, tra gli addetti ai lavori, si parla di una Sipra con le mani legate.

Accordi segreti con Publitalia? Patti di non belligeranza? Non si può non porsi la domanda. Altro fatto non indolore, la Sipra è stata lasciata senza un amministratore delegato dal novembre 2009 al luglio 2010, con i Mondiali di calcio già in corso. Sarebbe mai stata possibile una cosa del genere su Sky o Mediaset?

 

Ecco allora la presentazione del piano industriale che promette la parità di bilancio entro il 2012. Mauro Masi ha già all’attivo un bel palmares che recita ad esempio: «Da maggio del 1999 a giugno 2003 è stato Commissario straordinario della Siae: da un deficit di 28 milioni di euro, riporta in attivo la Società». Ora il debito da risanare è maggiore. In teoria il piano industriale è concepito per non toccare le produzioni, ma sono previsti per ogni rete tagli lineari per circa 30 milioni dal bilancio del prossimo anno e il piano prevede le cosiddette “procedure di cessione” di un ramo d’azienda. Alcuni settori sarebbero ceduti in outsourcing, le cosiddette esternalizzazioni, come l’ufficio abbonamenti, la contabilità, le telecomunicazioni, acquisti e servizi, trucco e parrucco, riprese esterne e scenografia. 1200 persone lascerebbero un sicuro lavoro pubblico e sarebbero assunte da nuove società private. E mentre la Rai non può licenziare, le nuove aziende sarebbero libere di farlo. Secondo i sindacati la Rai, inoltre si vorrebbe vendere Raiway, la società che possiede le torri con cui si trasmette il segnale televisivo. Ne ricaverebbe 300 milioni e poi pagherebbe l’affitto delle torri. La Rai sostiene che si tratta solo di un’ipotesi del piano industriale e che le torri non si possono vendere se non nella misura del 49 per cento perché monopolio di Stato.

 

I sindacati di tutte le bandiere, esclusa la Cisl, hanno proclamato uno sciopero che, lo scorso 10 dicembre, ha avuto un’adesione dell’85 per cento dei lavoratori. Il clima che si respira all’interno dell’azienda è pesante e i sindacati hanno abbandonato il tavolo delle trattative.

Ci sono, è indubbio, degli sprechi e dei privilegi. È certo singolare che a farne le spese siano sempre le categorie meno protette.

 

Scenari possibili

 

Da anni la Rai è una terra di nessuno in mano alla politica, una prateria dove tutti scorazzano per quel poco tempo che serve e proseguire la carriera altrove. La classe dirigente non esiste quasi più, pochi dei capi si intendono di televisione e di prodotto.

Inoltre i dirigenti sono tarati sugli ascolti e su degli obiettivi commerciali. Un programma funziona in effetti su queste due variabili: il numero dei telespettatori e il favore del referente politico. È una delle contraddizioni di chi dovrebbe fare della tv un servizio pubblico cercando di raggiungere, invece, il punto più alto di intersezione tra qualità e quantità. E l’auditel dovrebbe essere ricondotto alla sua funzione di strumento di lavoro per pubblicitari e autori, e non unico standard per giudicare la qualità e il successo di un programma.

Lo stesso disagio si avverte nella concezione strutturale della Rai. Esiste una sorta di ambiguità di fondo e un peccato originale nella legge Gasparri in cui il Cda e il direttore generale sono espressione diretta della politica. E nove sono i consiglieri di amministrazione come nove erano i partiti nel 2004. Per lo più gente a fine carriera, con nessuna esperienza e competenza televisiva che, nei fatti, oltre le parole di prammatica, non hanno nessun interesse nel risanare l’azienda.

Inoltre non è chiara la catena di comando e chi ha competenza su determinati temi. Bisognerebbe distinguere tra la linea di indirizzo editoriale e la gestione economica dell’azienda. Adesso i due piani sono ambigui e confusi. Servirebbe perciò un doppio livello: di indirizzo e controllo da parte di un comitato che rappresenti la società civile, anche nel Cda, e che possa essere un serbatoio di idee, istanze, linee guida per fornire un servizio pubblico. E un comitato esecutivo che abbia il compito di prendere decisioni economiche e gestionali.

Chi avrà mai il coraggio di esercitare le proprie funzioni al meglio e nell’interesse di tutti, nel pieno rispetto della politica, ma senza sottomettersi ad essa? E, soprattutto, restando con la schiena dritta?

 

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Le proposte

 

Alcuni amici di Città Nuova, giornalisti, autori, registi, hanno espresso in occasione dello sciopero del 10 dicembre delle proposte concrete per tutelare il bene pubblico della Rai. Ecco alcune loro osservazioni:

«La Rai è già sparita da 15 anni per colpa della politica e non ci sono più grandi figure culturali di riferimento. Propongo l’abolizione dell’auditel, almeno per i telegiornali. Recuperare, proprio nell’epoca della globalizzazione, l’orgoglio e l’identità aziendale. Usare in modo intelligente il telecomando. Premiare i programmi che piacciono e punire i programmi di minore qualità».

«Ci vorrebbe almeno un canale Rai generalista che faccia un servizio pubblico dignitoso con tanta informazione e il meglio della cultura italiana. Il pubblico da casa può inoltre mandare lettere e mail nelle redazioni che sono lette se firmate e argomentate».

«Non comprare i format dei programmi da società esterne ma valorizzare le risorse interne che sono in grado di realizzare ottimi programmi per idee e professionalità. C’è personale interno non utilizzato che è in grado di fare lo stesso lavoro a costi inferiori».

«C’è un problema di dialogo anche all’interno della Rai tra i diversi operatori. Se si rimane uniti, ci sarà un filtro maggiore, perché l’unità è contagiosa e quando manca si crea un clima di contrapposizione, amico-nemico, che rende difficile la realizzazione di un buon prodotto. Non vuol dire appiattimento ma valorizzazione del merito di tutti anche se di diverse estrazioni culturali. La comunicazione si basa sui rapporti e bisogna riscoprire un’unità aziendale, non per sopravvivere, ma per avere dei veri orizzonti produttivi».

«La Rai è molto malata ma ha le potenzialità per guarire, ci vuole un chiaro progetto industriale per recuperare autonomia, stare sul mercato multimediale, fare accordi di respiro internazionale».

 

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Investire in competenze

Andrea Melodia, già giornalista e dirigente Rai, è dal 2009 presidente nazionale dell’Ucsi, l’associazione dei giornalisti cattolici italiani e membro.

 

Scenari di tendenza prossimi venturi. Verso dove va la Rai?

«Dipende dalla politica e in che modo si assumerà le sue responsabilità verso il mondo della comunicazione. A mio giudizio è uno dei più gravi problemi disattesi nel Paese. La televisione, lo dicono gli studi e le statistiche, sta al centro del sistema della comunicazione e il servizio pubblico ha ancora una funzione da svolgere nell’orientare l’opinione pubblica».

 

Una sua valutazione sul nuovo piano industriale votato all’unanimità dal Cda. Può funzionare?

«Solo se lo si accompagna ad un fortissimo investimento in competenze professionali, che è quello che è mancato negli ultimi 20 anni. Nessuno può scandalizzarsi se alcuni servizi vengono esternalizzati o se si comprano i format dei programmi dall’estero. Fa parte della realtà di tutto il mondo, ma nessuna grande azienda può funzionare senza lavorare alla propria cultura, gestendo le proprie professionalità e competenze sul prodotto. È proprio quello che manca. Ci sono, poi, spazi dati a potentati esterni all’azienda e grandi conduttori che vanno per fatti loro e non hanno più niente a che fare con la cultura aziendale».

 

Come la Rai può ripartire come azienda?

«Dando dei criteri di governo che premino professionalità e autonomia. I partiti devono fare dei passi indietro e dare responsabilità agli amministratori con risorse certe, non infinite, se si vuole fare un servizio pubblico degno di questo nome, per restare sul mercato della televisione come un attore importante».

 

La Rai sale negli ascolti nelle regioni passate al digitale terrestre e supera Mediaset del 7 per cento, ma la vendita della raccolta pubblicitaria non aumenta. Come può accadere un fenomeno del genere?

«Credo che si debba ciò al fatto che il mondo della pubblicità è sensibile alla politica. C’è poi un corto circuito culturale tra la pubblicità e tv private ed è uno degli effetti negativi del servizio pubblico che non è fatto per scimmiottare la televisione commerciale ma per proporre dei modelli alternativi forti. Ci sono episodi sporadici positivi come Vieni via con me, ma manca una strategia».

 

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