Tra malinconia e malattia mentale

Dalla psicologia alla psichiatria e ritorno. Medicalizzazione e scienza dei dati

Nel 1980 Rafael Osheroff vinse in tribunale la causa che aveva intentato contro l’ospedale psichiatrico Chesnut Lodge in Maryland (Usa), dove era stato ricoverato per attacchi di ansia e depressione. L’accusa era una novità per quei tempi. L’ospedale fu condannato a pagare i danni perché aveva sbagliato metodo di cura: invece di prescrivere i farmaci disponibili, aveva preferito usare la psicoterapia (la tecnica usata da Sigmund Freud) per trattare il male di Osheroff, qualificato come disturbo narcisistico di personalità. Appena trasferito in altro ospedale, invece, i medici avevano diagnosticato un episodio depressivo psicotico e, tramite la somministrazione di farmaci antidepressivi triciclici, ottenuto un immediato miglioramento.

Il dibattito che ne seguì, tra chi sosteneva i vantaggi della terapia basata sui farmaci e chi sottolineava che il rapporto tra medico e paziente è più importante di qualsiasi altra cosa per la guarigione, non si è mai fermato. Negli anni si è consolidata la posizione ovvia per cui l’associazione farmacoterapia più psicoterapia è quasi sempre la strategia terapeutica più efficace. Recentemente, però, con l’avvento delle tecniche di neuroimaging, che permettono di “vedere” l’effetto dei farmaci nel cervello,  la psichiatria sembra essere passata in vantaggio.

Tra l’altro ha fatto capolino anche qui la “scienza dei dati”, che permette di utilizzare algoritmi (online) in grado di prevedere, con discreta approssimazione, la probabilità di successo di un farmaco in una specifica situazione. È la cosiddetta “psichiatria delle prove”: lo psichiatra può prendere una decisione migliore se basata su dati oggettivi e non solo sulla sua valutazione soggettiva. Tutto bene dunque? Forse no. Come dimostra anche l’ultima versione del manuale per psichiatri, il DSM-5, il rischio è di “medicalizzare” tutto, per cui ogni minimo malessere, fosse anche una banale malinconia, viene subito trattato con apposita pillola.

La tendenza dei ricercatori è sempre più verso un unico tipo di approccio terapeutico, quello farmacologico, con grande gioia delle multinazionali. Ma siamo tutti malati? Forse, nella maggior parte dei casi, non abbiamo bisogno di una pillola, ma di essere guardati, ascoltati, amati. Riguardo al dibattito psichiatria/ psicologia, scriveva di recente sulla rivista Nature Human Behaviour Sophia Vinograd, direttrice della divisione di psichiatria dell’università del Minnesota: «C’è un segreto di cui noi psichiatri non amiamo parlare: lo stato palesemente primitivo del nostro modo di valutare, capire e trattare la malattia mentale».

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