Maestro della luce

Ci incontriamo negli Studi di Cinecittà per una conversazione che, grazie alla disponibilità del maestro, si rivela un viaggio che attraverso la luce dischiude orizzonti inattesi. Vittorio Storaro, uno dei più grandi autori di cinema, è nato a Roma e si è laureato al Centro sperimentale di cinematografia. Premio Oscar per Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, Reds (1981) di Warren Beatty, L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. La sua ricerca e le sue sperimentazioni si estendono anche alla musica, al teatro e all’arte figurativa come mostrano Tosca e La traviata di Giuseppe Patroni Griffi, Orestea di Luca Ronconi e Goya di Carlos Saura. Ha pubblicato per l’Electa e l’Accademia dell’Immagine dell’Aquila il primo di un organico studio in tre volumi, Scrivere con la luce, in cui sviluppa la sua ininterrotta ricerca sull’arte della visione. Quanto la conoscenza del linguaggio della luce e delle sue componenti ti ha permesso di “scrivere con la luce”? “Tutti gli artisti e coloro che si sono occupati di immagine, dai graffiti primitivi sino alla cinematografia o alla televisione, hanno sempre avuto il senso del rapporto conflittuale od armonico tra le due grandi componenti della vita, la luce e l’ombra. Noi percepiamo l’immagine con i chiari e con gli scuri, con i colori caldi e quelli freddi, non solo con l’occhio ma con tutto il nostro corpo che riceve delle vibrazioni ed ha una reazione in presenza di un certo colore o di una certa luminosità, sia sul piano fisico che su quello inconscio. Proprio attraverso la conoscenza di questo tipo di possibilità si può scrivere con la luce una storia. Se, ad esempio, voglio rappresentare un conflitto, una separazione, una difficoltà, metto in scena una luce molto netta, separata dall’oscurità, dando così una sensazione di non dialogo tra le parti. Se, al contrario, utilizzo una luce molto morbida, più soffusa, che si muove da una forte ad una bassa intensità, sto dicendo che si tratta di una situazione più armonica”. Sei stato definito “pittore di luce”, eppure traspare dalle tue parole il desiderio profondo di narrare, nel fare un film… “Sì, da sempre ho avvertito il bisogno di narrare. Mi sento uno scrittore piuttosto che un pittore. Non a caso i termini “fotografia” o “cinematografia”, che derivano dal greco, contengono le parole “luce” e “scrittura”, ma anche “cine” che vuol dire motion, movimento, e che è la nostra espressione. Infatti la cinematografia, a differenza della pittura, è espressione in movimento, appartiene alla sfera dello scrivere, poiché non basta una sola immagine, una sola parola, per raccontare una storia: serve una successione di eventi, un inizio, uno svolgimento ed una fine. In ogni film che affronto cerco di capirne il contenuto profondo e tento di trovare un concetto visivo simile ad esso. È bene sapere il tipo di messaggio che vogliamo trasmettere ed usare quel tipo di luci, di colori, di ombre, che rispecchiano il significato di quel messaggio, altrimenti possiamo confondere lo spettatore o fornire false indicazioni. Si può aiutare la comprensione, ma anche causare danni molto seri”. Credi che la luce sia una via che apre al trascendente? “Non bisogna mai dimenticare che vi è un momento in cui certe spiegazioni non si possono più dare. Sul concetto di infinito, di provenienza, di energia, la scienza ci ha portato sino ad un certo punto, poi c’è una risposta per la quale soltanto la fede può aiutare, altrimenti rimarremmo con un enorme punto interrogativo davanti a noi. Ricordo che da ragazzo mi svegliavo con questo tipo di domande: prima di nascere dove stavo? Quando morirò dove andrò? Era per me una vera angoscia al punto tale che non trovavo la forza di alzarmi dal letto e solo mia madre riusciva a mettermi in moto, anche se io non credevo in quello che facevo. Poi, gradualmente, anche se non ricordo sia stata proprio una rivelazione, ho capito il senso della mia vita, per quanto infinitesimale, come una goccia in un oceano o un granello di sabbia nel deserto: poiché senza questo infinitesimo non vi sarebbe il tutto. Quando sentivo dire che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza ho capito che ciò non significava un naso, due occhi, una bocca, ma un’essenza, uno spirito, un’energia che si può simboleggiare con la luce. Così, nel momento in cui vado a toccare il senso della luce, ho l’impressione di toccare la finalità stessa dell’uomo. Certamente, se non avessi fede, non potrei usare la luce in quel modo. Vi è un momento in cui quando utilizzo tanta luce dico che quella è la nostra finalità. Mi sono reso conto che nella vita potevo far del tutto per far bene e non far male ed in questo modo avrei aiutato il percorso dell’umanità in quanto un piccolo essere che fa bene può aiutare due, tre, cento, mille esseri… Io credo che bisogna raffinarsi, essere sempre più nel bene, nella buona fede”. Eppure le immagini televisive, esercitando il loro immenso potere, spesso raccontano un altro tipo di realtà… “Sono cosciente che esiste ancora tanto egoismo, tanto senso del potere. Pensiamo alle guerre, alle violenze sui bambini, ad un certo tipo di spettacolo televisivo basato sull’annullamento del gusto, del ragionamento, solo per distrazione, che sia sportivo o sessuale: è l’abbrutimento totale. Ma non è così per tutti. Fortunatamente le nuove generazioni cercano valori più importanti. Bisogna guardare alle figure spirituali che hanno dato delle indicazioni, hanno indicato la via. Le arti, espressione di ogni civiltà, spesso hanno unito gli uomini di tutto il mondo più di quanto abbiano fatto certi dogmi. Credo che l’uso della luce nell’immagine, così come nella pittura, abbia sempre avuto un senso di fede”. Come vivi il rapporto con il regista? “All’inizio l’arroganza giovanile mi faceva ritenere che non dovevo cambiare le mie idee. Ero talmente focalizzato sulla concezione ideologica della cinematografia che prescindevo dal regista, qualora non fossimo stati d’accordo. Andando avanti, ho capito quanto sia importante essere guidati. Il cinema è un’opera multipla, come un’orchestra dove i solisti fanno parte di un insieme e soltanto avendo una direzione unica si può eseguire la stessa musica con la propria personalità. Recentemente ho capito che noi siamo indispensabili al film, in quanto senza il nostro apporto l’immagine non si vede, ma nonostante la cinematografia sia un viaggio molto personale, intimo, da solitari, in realtà essa non esiste se non è collocata in una storia e soprattutto se non è diretta da un regista”. Quale il contributo di una vita affettiva serena in un ambiente non sempre facile? “Il grazie va ad una grande donna, Antonia, mia moglie. Si dice che dietro ad un creativo vi sia sempre una grande donna. Indubbiamente la sua personalità ha giocato un ruolo fondamentale. Lei veramente mi ha lasciato libero di esprimermi, dicendomi con le sue azioni oltre che con le sue parole: “Non ti preoccupare, qui ci penso io”. Particolarmente adesso che ho abbastanza esaurito la voglia di capire e le sono più vicino di prima, mi rendo conto di quanto lei ha fatto in questi anni. Abbiamo compiuto un percorso di vita insieme, 44 anni. Con tutti gli alti e bassi che una vita familiare normalmente ha, con dei momenti di grande gioia, di grande solitudine, di grande dolore ed anche di conflitto. La vita non è mai lineare. La stima, il rispetto e l’affetto ci hanno sempre aiutato a superare i momenti di difficoltà. Il nostro rapporto è stato abbastanza sereno per non dover andare a cercare di colmare dei vuoti. Nel campo dello spettacolo le occasioni di trovarsi fuori dal nucleo familiare sono tantissime. Ad aiutarmi però, oltre a questo senso di benessere, anche la tendenza a capire me stesso”. Parlavi di momenti di solitudine, di dolore, possiamo parlarne… Quanto tutto ciò ti ha portato a riflettere? “Mi ricordo una frase che disse il regista Francis Ford Coppola quando perse il figlio: “Nessuno vorrebbe conoscere la tragedia. Non c’è nessuno che sia così masochista, però quando ti ci trovi, improvvisamente capisci che anche quella parola fa parte della parola vita”. Io credo che il dolore sia come la notte, l’inverno. Conoscendo certi tipi di passaggi, possiamo capire o trovare l’altra parte, possiamo avere nuovi stimoli, la forza di proseguire il cammino. Apparteniamo ad un ciclo, come una ruota. È il senso di appartenenza a questo insieme che ci aiuta. Credo che ci sarà un momento in cui saremo tutti insieme”. Quanto conta per te trasmettere la conoscenza ai giovani? “È molto importante. Non credevo di saperlo fare. Ho un po’ sofferto per non essere stato bene educato, sia in famiglia che nella professione. Mi sono mancati un certo tipo di ragionamento con mio padre, un certo tipo di educazione scolastica, il contatto con i grandi professionisti di quel momento. Allora ho cercato di dare ai giovani quello che è mancato a me. Prima con dei seminari, poi con dei corsi completi all’Accademia dell’immagine dell’Aquila. Da qui è nata l’idea della trilogia sulla luce, i colori e gli elementi che rispecchiano tre capitoli della mia vita legati a delle grandi personalità: Francis Coppola, Bernardo Bertolucci, Warren Beatty. Si tratta di 30 anni di studi che consegno non solo ai miei allievi, ma a tutti i lettori. Mi sembra molto bello educare i giovani alla conoscenza classica mediante le tecnologie moderne “. Anche i tuoi figli Fabrizio e Francesca mi sembra collaborino con te… “Sì, è come trasmettere una parte di me. Fabrizio ha sviluppato la parte visiva legata agli effetti speciali mentre Francesca il concetto della luce nell’architettura. Se avessero scelto cinematografia avrei avuto dei timori, poiché mi sarebbe sembrato di proiettare la mia ombra su di loro. Invece, sono diventati entrambi più bravi di me nel loro campo specifico senza entrare in competizione con la figura paterna”. L’interesse per la luce ti ha condotto verso nuove espressioni… “Negli ultimi anni mi sono sempre più reso conto che il linguaggio della luce non tocca solo l’area cinematografica. Con mia figlia Francesca mi sono accostato, come spesso accade nei film, alla struttura urbana od all’architettura. L’ultima realizzazione è stata l’illuminazione permanente del Campidoglio. Il concetto centrale dell’equilibrio che Michelangelo ha cercato di strutturare in architettura ho cercato di visualizzarlo attraverso un certo tipo di colori e di luci che insieme formano un equilibrio visivo luminoso. Dalla signora Ciampi abbiamo poi ottenuto l’incarico di illuminare la corte ed i giardini del Quirinale”. La professione ti ha portato a conoscere personalità, luoghi, culture e spiritualità differenti, come per “Il piccolo Buddha”, “L’ultimo imperatore”. Quali le tue considerazioni ed i tuoi approfondimenti? “Io credo che vivendo a contatto con altre popolazioni si possa capire meglio che siamo un tutt’uno. Quando si conosce non si teme. Il mondo dello spettacolo può svolgere un grandissimo ruolo. A questo proposito, spesso sul set collaborano professionisti di differenti nazionalità che possono scambiarsi le loro conoscenze. Realizzare una storia che si può proiettare in qualsiasi grande schermo nel mondo amplifica la cultura, aiuta la pace. La tua ricerca dove ti sta conducendo? Verso quello che credo sia il senso della mia vita. Il tentativo cioè di conoscere perché il giorno è diverso dalla notte, il bene dal male, perché soltanto conoscendo le parti opposte, si possono accostare, unire. In realtà sto cercando di raggiungere l’equilibrio. Non credo che ci riuscirò pienamente perché è un viaggio lunghissimo, però sono cosciente che mi sto indirizzando verso quella direzione e quel poco che ho capito sto cercando di trasmetterlo. E questo mi piace molto. È un viaggio spirituale…”.

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