L'”uomo psicologico” dell’ultimo Fromm

C’è un messaggio nuovo in questo ennesimo volume di Fromm? Sì, ed è tutto in questa frase: La sopravvivenza fisica della specie umana dipende dalla radicale trasformazione del cuore umano… ma si verifica un fatto quasi incredibile, ed è che nessun serio sforzo viene intrapreso per scansare quello che sembra un decreto senza appello del destino. Mentre a livello personale nessuno, a meno che non sia un pazzo, può rimanere indifferente testimone di una minaccia all’esistenza di tutti noi, coloro che sono investiti della responsabilità della pubblica amministrazione in pratica non muovono un dito, e quanti hanno affidato il proprio destino alle loro mani continuano a loro volta a non fare nulla (pp. 24-25). Non posso esimermi dal fare qualche riflessione su questo libro in particolare, ma anche sugli altri della vasta produzione di Fromm. Proprio perché umanista, l’autore è culturalmente legato a quei grandi saggi della storia che si possono anche definire umanisti, benché non in senso univoco; ed è la ragione che permette di ritrovare in lui le grandi verità metafisiche e morali che soddisfano lo spirito (fare, avere, apparire = superficialità, materialità, io immaturo; essere = vita, interiorità e creatività spirituale, libertà dell’io…); ed essendo psicoanalista, ha la capacità di penetrare i fenomeni individuali e sociali, nonché di analizzarli in modo così lucido che il lettore è obbligato a sorridere di compiacimento come di fronte all’uovo di Colombo. Per questo la lettura di Fromm è sempre un esame di coscienza che fa bene. Ma per poco che si abbia esperienza degli uomini, Fromm delude proprio là dove vuole costruire l’uomo nuovo o progettare una nuova società. Poiché il suo uomo nuovo è appunto l’uomo puramente psicologico. Ora, si può anche prospettarne l’esistenza, in quanto è possibile che un individuo esca dalla fase narcisistica, di compiacimento di sé stesso, alla continua e libera ricerca di ciò che è meglio per sé e per gli altri, ossia alla ricerca del bene perché buono e non del bene perché utile, anche al di fuori di ogni prospettiva su Dio. Ma prospettare una società di uomini psicologici è utopistico proprio perché – paradossalmente – si dimentica la psicologia dell’uomo, il quale naturalmente regredisce verso altre forme narcisistiche quando non viene sollecitato in avanti da Chi possa dare un senso ai sacrifici necessari per stabilire e mantenere rapporti di amore e comunione con gli altri (è curioso che gli utopisti dimentichino sempre quello che i teologi chiamano peccato originale e che purtuttavia si riscontra sperimentalmente nella storia individuale e dei popoli). Ho letto, tempo fa, uno degli ultimi saggi di antropologia cristiana intitolato L’uomo, di J. Moltmann, uscito in Germania nel ’71. Tratta pressappoco lo stesso problema di Fromm, ma da teologo; eppure sembra conoscere di più la realtà dell’uomo di quanto la conoscano gli psicologi, ed è più appagante perché dimostra in definitiva di avere maggiormente i piedi per terra, quando fa capire che nessuna antropologia ha senso se non parte e non si rispecchia nel mistero del Figlio dell’uomo crocifisso. Ma è, appunto, un’altra dimensione nella quale occorre essere per capirla e per sperare realisticamente in una umanità ri-creata.

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