L’uomo dell’argine

Raitre, ore 20,55, 24-25/6. Più che tv movie è un atto d’amore, un’operazione culturale e un tentativo di innovare la scrittura televisiva. L’uomo dell’argine è molto più della storia televisiva di don Primo Mazzolari, il parroco dei lontani , la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana come di lui disse papa Giovanni XXIII. Gli autori (Gilberto Squizzato e Ennio Chiodi) hanno deciso di evitare la scorciatoia più battuta dalle ricostruzioni oggi in voga. Con un budget ridotto, non hanno fatto alcuna concessione allo spettacolo e hanno puntato dritto al messaggio. Non c’è musica per sottolineare i momenti clou della storia, gli attori sono tutti sconosciuti e molti sono non professionisti per la prima volta sullo schermo, non c’è alcuna concessione al fogliettone, ma aderenza assoluta ai documenti storici. Se vogliamo è l’esatto opposto della versione tv di Salvo D’Acquisto, l’altra faccia della storia in prima serata. Se lì si passava anche sopra alla verità storica pur di inseguire il filo di un racconto televisivamente con più appeal, qui si asciuga ogni divagazione per raccontare i fatti. Dal punto di vista del modello cinematografico di riferimento è a metà tra i toni raggelati e immobili del Diario di un curato di campagna di Robert Bresson (citato a più riprese) e la crudezza neorealistica de La terra trema di Luchino Visconti, dove ai pescatori si sostituiscono i contadini lombardi che impagliano scope e coltivano i campi. È un tentativo ibrido di raccontare la storia con inserzioni di fiction. Un documentario sceneggiato lo si potrebbe definire, un mix tra immagini dei cinegiornali e ricostruzione con attori. Il lavoro più gravoso è stato quello della raccolta di materiale originale. Dalle lettere autografe ai filmati dell’istituto Luce e di Combat film, dalle rare immagini di don Primo e alla sua voce incisa su na- stri d’epoca, il film sembra quasi un’incursione in un centro documentazione. Tutto funziona quando in montaggio si alternano sequenze dell’epoca con riprese seppiate degli attori. Il modello Forrest Gump (con l’attore che entra nelle immagini dell’istituto Luce) rischia invece di produrre effetti quasi comici. È un’operazione che ha infatti i suoi rischi. Il prodotto finale potrebbe risultare indigesto per un pubblico distratto e con il dito sempre in agguato sul telecomando. La sequenza iniziale, dopo i titoli di testa, si ingarbuglia in troppi flashback di non facile lettura. I costi ridotti impongono scelte che rendono più difficile seguire il racconto: non potendo investire su robuste e costose sedute di trucco, gli attori che interpretano don Primo sono due e quando si passano il testimone (dal sacerdote giovane a quello adulto) non è facile riconoscerli come la stessa persona. La recitazione delle centinaia di non professionisti è commovente, ma stentata. Sono i rischi di chi con coraggio cerca strade nuove ed evita di inseguire i gusti del pubblico. Se non ci si fa spaventare da questi ostacoli, se si entra nel meccanismo del documentario sceneggiato si arriva al cuore del lavoro: un commosso, caldo atto d’amore per un sacerdote straordinariamente moderno, pacifista e dalla parte dei lontani, che sceglie la parte dell’argine che sembra stare lì e non far nulla e che invece con la sua presenza evita che il fiume travolga tutto. Un baluardo contro il fascismo prima, contro le ritorsioni dei partigiani poi, contro chi opprimeva i più deboli sempre. Gianni Bianco

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