Luci e ombre di una riforma

Mentre non vanno in vacanza polemiche e interrogativi, il conto alla rovescia è iniziato: giusta o sbagliata che sia, dopo l’attesa e fugace pausa estiva, la nuova scuola sarà realtà. Ma in pratica, cosa cambia al ritorno sui banchi, per oltre un milione di alunni e 100 mila docenti, in circa 8 mila scuole? La cosiddetta riforma Moratti, resa attuativa dal decreto legislativo del 19 febbraio scorso entra in vigore, a settembre, nella scuola dell’infanzia (exmaterna), nella primaria (ex-elementare) e nella secondaria di primo grado (ex-media). Questi due ultimi segmenti, rispettivamente della durata di 5 e 3 anni, costituiscono il primo ciclo del sistema scolastico: l’esame pertanto è abolito in quinta, ed è previsto al termine del terzo anno della secondaria di primo grado. Quella della Moratti, è definita anche la riforma della personalizzazione. La scuola che abbiamo in mente – scriveva il ministro ai docenti, genitori e ragazzi nell’aprile del 2002 – è un modello di comunità di studenti, famiglie e docenti, che sappia formare i ragazzi prima di tutto come persone. La scuola cioè viene intesa come un ideale obiettivo da perfezionare sempre più: la comunità. Non è una novità inedita nel sistema italiano – riflette con noi Luciano Corradini, in una pausa del Congresso degli insegnanti cattolici (Uciim), di cui è presidente -. Il concetto è già stato adottato infatti dai decreti delegati nel ’73-74. È un’idea che ha aspetti diversi. Sia relativamente ai diritti e ai doveri nel rapporto con la società ed il mercato. Sia verso i bambini, intesi non come individui, ma come membri di una formazione sociale; la quale include il pieno successo formativo di ciascuna persona. La finalità generale del sistema educativo, affermata nei primi due articoli del provvedimento (legge 53/2003), è favorire la crescita della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia. Cosa significa? Chi prenderà a cuore la scuola, ha a cuore i singoli ragazzi, scrive Mario Mauro, vicepresidente della Commissione parlamentare europea per la cultura, la gioventù e l’istruzione, nel suo libro Compagni di scuola. E pertanto – continua – si accosterà a ciascuno di loro come il sarto intento a studiare nei minimi dettagli un vestito su misura. Personalizzare significa io guardo chi sei tu: non ho il problema dei programmi, ho l’urgenza di capire di cosa hai bisogno tu, per arrivare fino in fondo al tuo cammino. Per attuare tutto ciò, la legge ha voluto affermare l’importanza della collaborazione con le famiglie. Il principio costituzionale, per cui il compito educativo è affidato ai genitori, viene ripreso e posto alla base della riforma. Con le famiglie devono essere elaborati i documenti scolastici: Il piano dell’offerta formativa della scuola, i Piani di studio personalizzati (i vecchi programmi ministeriali): comprendono un nucleo fondamentale omogeneo su base nazionale e una quota regionale), il Portfolio delle competenze individuali: (la vecchia pagella è andata in pensione) questo strumento accompagna l’alunno nel suo percorso scolastico, con una sezione per la valutazione, un’altra per l’orientamento e una per la raccolta di documentazione sulle esperienze formative. Genitori protagonisti La famiglia è chiamata a collaborare con i docenti nella compilazione dei documenti suddetti. È un impegno notevole per i genitori. Saranno pronti a condividerlo col docente e viceversa? Abbiamo chiesto il parere a Maurizio Salvi, presidente dell’Associazione Genitori (Age). Come tutte le cose nuove – risponde – c’è bisogno di tempo. Perché tale proposta non rimanga tale, è necessaria la formazione. E ciò lo si può fare in un’associazione. Ci racconta poi come il Ministero ha incontrato sei genitori per ogni regione a Sabaudia. Il progetto si chiama Genitori e scuola, ed ha lo scopo di approfondire e trovare le modalità di una partecipazione attiva dei genitori nel rinnovare il sistema di istruzione. È un passaggio importante – commenta – perché le associazioni dovrebbero provvedere, ciascuna nel proprio territorio, a portare questa informazione e formazione sul posto. Un genitore da solo ha difficoltà a tenersi informato e prepararsi. Spesso la famiglia dove tutto funziona, attrezzata culturalmente è un’idea. La realtà è più complessa. Per questo, la scuola – afferma Mariangela Prioreschi, presidente dei Maestri cattolici (Aimc) – dovrebbe svolgere un’azione educativa tipo effetto alone. Cioè prendere in carico anche l’alfabetizzazione delle famiglie, creando dei contesti informali di colloquio e di formazione, in cui possa presentare e motivare il progetto educativo. In modo tale che le scelte che i genitori faranno siano le migliori possibili per i ragazzi. Occorrono poi soprattutto occasioni di incontro istituzionali. Per questo, si attende con trepidazione la legge sugli organi collegiali, che rappresenta un elemento indispensabile per il protagonismo dei genitori. Da parte nostra, come famiglie, dovremo fare lo sforzo, non facile, di conoscere e partecipare. La legge apre gli spazi: sta a noi la possibilità di assumere un ruolo nuovo, decisivo per i nostri figli. Gli insegnanti Il tramite del rapporto scuola-famiglia è il docente tutor. In pratica, si torna al maestro unico, anziché al team di più insegnanti specializzati nelle varie materie. Il tutor infatti, nei primi tre anni della scuola primaria, svolge un’attività di insegnamento di almeno 18 ore su 27 settimanali: deve avere cura dei bambini, deve progettare, insieme ai colleghi e alla famiglia, la formazione per ciascuno di loro; deve inoltre coordinare gli interventi dei colleghi. Questa nuova figura pone non pochi interrogativi, ad esempio: saranno conciliabili per lui insegnamento e le altre responsabilità? riuscirà il suo apporto a equiparare la ricchezza del lavoro d’équipe? come saranno i rapporti tra colleghi, destinati a diventare insegnanti di seconda categoria? L’orario In sostanza, il tempo scuola non subisce variazioni rispetto all’esistente. Però il monte ore delle lezioni è determinato su base annua, con un limite massimo e minimo, per consentire la migliore articolazione a seconda del progetto educativo dell’istituto. Una delle più accanite critiche alla riforma è la scomparsa del tempo pieno. I genitori – chiarisce la Prioreschi – hanno un servizio prolungato come prima: cioè le 40 ore famose sono garantite anche dalla riforma Moratti, ma solo come orario complessivo . Allora, cosa cambia? Salta il modello del tempo pieno – dice – che la scuola da trent’anni a questa parte aveva elaborato. Esso si trasforma in una somma di 27 ore obbligatorie, 3 ore opzionali e 10 di mensa settimanali. In pratica, non abbiamo più un pacchetto unitario. Mi auguro lo diventi nella fase della gestione: ciò dipenderà – conclude – se le scuole riusciranno a proporre un ventaglio di opzioni che, sebbene facoltative, siano convergenti al progetto. Allora le famiglie potranno scegliere corsi, attività o laboratori attinenti al programma educativo. Cosa faranno i bambini nelle ore pomeridiane non lo sappiamo: mancando un progetto unitario, non si sentiranno discriminati, rispetto a quelli che tornano a casa, finite le ore obbligatorie? L’esercizio della libertà di scelta educativa da parte della famiglia trova attuazione anche nella possibilità del cosiddetto inserimento anticipato: i bambini interessati, che compiono rispettivamente tre anni e sei anni di età entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento, possono iscriversi rispettivamente nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria. Chi gestisce la scuola Il contesto della nuova scuola è l’autonomia didattica e organizzativa rispetto al governo centrale dell’istruzione in favore dei vari istituti: questi sono autorizzati a organizzare liberamente i loro calendari, ad articolare le classi in modo più flessibile, ad organizzare iniziative di recupero o attivare insegnamenti facoltativi. La legge relativa (n.59/1997) modifica il titolo V della Costituzione, decretando che alla scuola contribuiscono tutti i soggetti presenti sul territorio, dal comune, alla provincia, alla regione. In pratica, le scuole superiori sono gestite dalle province, le scuole elementari e medie dai comuni. Abbiamo la pertinenza della regione e poi della provincia per quanto riguarda i percorsi di istruzione e formazione, così come adesso si intendono. Che cosa aggiunge di nuovo la legge Moratti? C’è un cambio di prospettiva – spiega Enrico Danili, dirigente delle scuole superiori tecnico-commerciali di Milano -. La scuola non è più autoreferenziale, ma in funzione del territorio, in collaborazione con i sindacati, con le associazioni… le parole-chiave sono: fare rete, integrarsi e territorializzare. Non è più la scuola che parte dall’offerta, ma la scuola che risponde ai bisogni. Siamo in Europa – con- tinua Danili -. Occorre raggiungere certi obiettivi, che sono evitare la dispersione scolastica, aumentare il numero dei qualificati, e dei diplomati, aumentare le persone che dopo il diploma finiscono la scuola superiore. Bisognerebbe vedere la legge 53 della Moratti in un contesto europeo e in un discorso di integrazione dei sistemi, nella prospettiva del lavoro. L’ultimo decreto varato dal consiglio dei ministri il 21 maggio scorso, stabilisce che già dall’anno scolastico 2004-2005, l’obbligo, adesso dirittodovere all’istruzione e alla formazione, sale (dagli attuali 9) fino ai 16 anni, in vista di essere in seguito assicurato a tutti fino ai 18 anni, con la possibilità a partire dai 15 di alternare periodi di studio e periodi di lavoro. Per vincere la sfida della modernizzazione e dell’integrazione in Europa, i bambini troveranno l’insegnamento dell’inglese e dell’informatica fin dalla prima classe della scuola primaria, anziché in terza. Inoltre, è introdotta una seconda lingua comunitaria a partire dalla scuola secondaria di primo grado. Adesso si apre la stagione delle realizzazioni. Le prove decisive saranno nel completare la normativa di attuazione e nella capacità di tradurla in pratica. Non basta prevedere piani di formazione in servizio – commenta De Beni, docente universitario di Docimologia (scienza della valutazione) all’Ateneo di Verona -, occorre soprattutto verificarne la qualità e l’effetto pratico sulla qualità dell’insegnamento . Bisognerà affrontare il nodo della professionalità degli insegnanti, sia da un punto di vista giuridico (il loro contratto), che della formazione. Qualsiasi tentativo di Riforma, infatti – continua De Beni -, se non sufficientemente supportato da un cambiamento nel campo delle risorse umane disponibili e della loro incentivazione, rischia di cadere su un terreno sterile o non pronto a raccogliere: molto migliorerà nella scuola dunque, se si sarà in grado di valorizzare e promuovere la professionalità docente. Allora si creerà il ciak tra la riforma sognata e la realtà educativa.

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