Sfruttamento del lavoro e rimedi possibili

Dopo i recenti arresti a Padova, con l'accusa di sfruttamento dei lavoratori a carico di un nome noto dell'interporto veneto, ci si interroga nuovamente su un settore strategico della nostra economia che va bonificato. Intervista all’imprenditore Giovanni Arletti
EPA/FRANCK ROBICHON

Le ultime notizie di cronaca dalla ricca e civile Padova riferiscono di indagini della polizia che hanno portato a far scattare misure di custodia cautelare nei confronti di un nome di spicco nel mondo della logistica industriale, legata all’interporto della città veneta. L’accusa da provare è quella di sfruttamento dei lavoratori, inquadrati in maniera fittizia in cooperative di un settore dove è larga la presenza di stranieri extracomunitari; resi ancor più vulnerabili perché minacciati di perdere non solo l’occupazione ma anche il permesso di soggiorno.

Si tratta di attività relative al carico e scarico della merce, nonché alla consegna della stessa, tramite società esterne del tutto fittizie o cooperative di facciata; il tutto per per nascondere sacche di lavoro precario e sottopagato. Ne abbiamo parlato sulla rivista Città nuova a proposito della morte di Abdesselem El Danaf, operaio egiziano di 53 anni e padre di cinque figli, avvenuta ad ottobre 2016 durante una protesta organizzata nell’area logistica di Piacenza.

Sulla questione abbiamo posto alcune domande a Giovanni Arletti,  che conosce molto bene la materia essendo un noto imprenditore emiliano nel settore degli imballaggi e della  logistica. Parliamo di un ambito di solito poco conosciuto, ma decisivo nell’economia degli scambi dettata dalla globalizzazione.  Arletti, presidente e fondatore del gruppo Chimar, si è più volte esposto – come sanno i lettori di Città Nuova – come promotore di una cultura aziendale che si ispira al modello di Adriano Olivetti, cercando cioè di mettere al centro del processo produttivo la persona umana con le sue necessità e diritti.

Come imprenditore del settore è sicuramente a conoscenza dei fenomeni di sfruttamento nella filiera della logistica. Come è stato possibile nel nostro Paese, e in luoghi ad alta sindacalizzazione come l’Emilia?

Fenomeni di sfruttamento esistono in più settori, (agricoltura, edilizia, turismo ecc.) caratterizzati da richieste di manodopera poco professionalizzata e da carichi di lavoro molto variabili. La logistica si nota di più perché  è un’attività concentrata fisicamente e quindi più evidente. Chi opera in questo settore conosce perfettamente l’impoverimento della catena di fornitura nella logistica. Un fatto che avviene anche in zone come l’Emilia, dove io risiedo e lavoro, che sono molto industrializzate e molto sindacalizzate.  Come spesso succede nelle situazioni estreme, ci sono concause e tutti gli attori hanno delle responsabilità. 

Possiamo esaminare queste cause?

Le grandi centrali cooperative che sono dei “soggetti politici di fatto”, assieme alle organizzazioni sindacali, hanno lasciato che le più deboli cooperative dei facchini diventassero i contenitori della flessibilità produttiva; senza porsi l’obbiettivo di fare evolvere il sistema, in modo da poterlo gestire in maniera più accettabile. Esistono, invece, alcuni esempi positivi nel mondo della grande distribuzione e soprattutto nel settore dell’autotrasporto.

Come si spiega il meccanismo dello sfruttamento?

Siamo davanti alla necessità delle aziende di cercare risparmi, grazie alle terziarizzazione delle loro attività non strategiche. Purtroppo invece di studiare i processi, reingegnerizzarli e innovarli, nel settore ha prevalso l’interesse a  concentrarsi solo sui risparmi, abbassando il costo del lavoro ricorrendo alle cooperative sottopagate. Spesso le terziarizzazioni vedono delle multinazionali con fatturati di miliardi di euro che si aggiudicano la grande commessa, garantendo un risparmio al proprio cliente tramite il meccanismo di appalti e subappalti che riducono il rischio d’impresa. Una visione miope che ha portato all’impoverimento dell’intera catena produttiva fino diventare sistema. Per legge le cooperative sono sottoposte alla vigilanza del Ministero della Sviluppo Economico, ma se queste sono iscritte ad associazioni giuridicamente riconosciute (ad esempio Legacoop, Confcooperative, AGCI , UNCI, Unicoop, Uecoop,ecc.) le ispezioni vengono effettuate dalle associazioni: non è più compito del Ministero. Si tratta di un’associazione che controlla i suoi associati. I controlli non hanno funzionato, mentre il sindacato ha accettato passivamente tale situazione di fatto

Qual strategie si possono concordare per debellare questa piaga del lavoro?

A mio giudizio servirebbero contratti di lavoro più flessibili, assieme all’integrazione dei dati della pubblica amministrazione e all’incrocio degli stessi dati con controlli veloci e mirati sulle anomalie. La strategia è quella di aiutare le aziende che rispettano l’applicazione corretta del Contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento puntando sulla capacità di gestire ricavando in questo il proprio profitto e non sulla riduzione del costo del lavoro. Ma soprattutto applicare le regole esistenti.

Quali regole vanno rispettate ?

Una per tutte: le cooperative di produzione lavoro (quelle di facchinaggio) devono avere un capitale sociale pari almeno all’8% del fatturato interamente versato. Il 75 per cento delle cooperative non ha questo requisito. Se questo dato fosse sotto controllo, verrebbero eliminate tutte quelle cooperative che di fatto sono dei contenitori di manodopera sotto pagata. Allo stesso tempo, lo Stato non può delegare alle aziende il controllo della legalità. Attraverso quello che si chiama responsabilità solidale deve assumersi, invece, le responsabilità che gli competono entrando in campo con tutti gli enti di cui dispone, e fare rispettare poche regole ma chiare che peraltro esistono già. Non accettare nessun compromesso, applicando peraltro un principio della concorrenza leale e non quello oggi vigente di concorrenze sleali: come l’utilizzo di queste forme di lavoro precarie di fatto, ma che non lo sarebbero con i dovuti controlli. Il Ccnl trasporti e logistica, se correttamente applicato è un contratto di lavoro dignitoso paragonabile a tutti gli altri dei vari settori.

Non è forse il modello di produzione e il sistema di gestione delle merci ad indurre precarietà e sfruttamento nel settore della logistica, che è infatti occupata prevalentemente da lavoratori stranieri ?

Tutte le posizioni lavorative dove occorre poca professionalità e lavoro verosono occupate in gran parte da stranieri. Questo dipende dal fatto che si è persa la dignità del lavoro, e pochi giovani Italiani desiderano occupare quei posti. Dopo la crisi strutturale del 2008 il sistema produttivo, e di conseguenza tutta la filiera di gestione delle merci, ha adottato il criterio del  just in time  cioè la riduzione delle scorte. In tal modo la flessibilità nella logistica è diventata un elemento strategico di successo. Ma la rigidità del sistema italiano nel mondo del lavoro ha alimentato le gestioni precarie, facendo proliferare le cooperative; dove non si applicano correttamente contratti e vanno a confluire soprattutto i lavoratori più deboli, come i migranti stranieri.

Ma queste nuove forme di precariato sono davvero così “nuove” e sconosciute? 

Il cambiamento che ho cercato di descrivere ha solo esasperato un sistema già consolidato da metà degli anni ’90: cioè il momento in cui in Italia sono cominciate le  terziarizzazioni, e il mondo della logistica si è sviluppato. Occorre ripartire dalla corretta applicazione delle regole e del rispetto dei CCNL di riferimento. La nuova rivoluzione industriale (industria 4.0) deve trovare nel mondo della logistica le risposte per essere un più competitivo, un fattore importante per il successo dell’industria del nostro territorio. Le società di logistica non si debbono accontentare di basse marginalità, investendo in tecnologie e competenze; con l’obbiettivo di essere all’altezza delle aspettative dei clienti e del rispetto dei diritti dei lavoratori.

 

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