Lo specchio dell’atelier

Articolo

L’officina del mago si apre con un dichiarato omaggio a Depero e alla sua “casa del mago” che senza veli presta il nome al titolo dell’esposizione. Il suo atelier si presenta subito come un luogo speciale, domestico e alchemico allo stesso tempo. Laboratorio pittorico e tessile, fucina di idee, di atti personali, di rapporti e di scambi.Tutto assume il riflesso freddo del metallo e del progresso: le persone, i mobili, il paesaggio visto dalla finestra; persino la stessa luce diventa materia decisa e forte. Un’infinità di dettagli cronachistici e intimi ci parlano dell’artista, del suo habitat e soprattutto del suo modo di vedere e di vedersi. È questo il “filo di Arianna” che collega un materiale espositivo altrimenti sparpagliato: gli interni d’atelier si accompagnano infatti a ritratti e autoritratti, modelle, oggetti, simboli, scene mitologiche e allegoriche. Lo studio dell’artista non si propone solo come un luogo fisico; spesso e volentieri è un luogo mentale. Il grande autoritratto di Pelizza da Volpedo, mani in tasca, senza affaccendarsi in altre cose, ci fissa dritto negli occhi e ci interpella; l’espressione ascetica ce lo propone così come lui stesso definiva l’artista: un “apostolo della bellezza”. Eppure l’autoritratto non si isola nel volto o nella persona ma si costruisce insieme al contesto: una rosa, un’edera, i libri, il teschio; cose che stanno rispettivamente per amore e bellezza, vita presente, cultura, morte. L’atelier va presto al di là delle pareti dello studio. È ciò che succede nell’autoritratto di Fillia, un testo futurista doc. In una gagliarda violenza cromatica il volto si compenetra allo spazio e agli oggetti dello studio, ma anche agli alberi e ai palazzi, quasi a gridare un’esistenza fatta di continui scontri e incontri tra sé e le cose. Tre diverse sezioni sono dedicate a Balla, De Chirico e alla coppia Mafai-Raphael.Tre diversi modi di vedere sé stessi e il proprio habitat. Estroverso e sereno quello di Balla; uno spazio e una persona che appaiono, in tutti i sensi, “pieni” degli affetti familiari. Quello di De Chirico si propone come un atelier della psiche dove senza veli vengono messi in scena l’ingombrante presenza della madre, lo sdoppiarsi della persona in un’ombra che sembra sfuggire alle regole dettate dal corpo; il proprio autoritratto in veste di Ulisse, viaggiatore che va, ma soprattutto che ritorna; un bellissimo autoritratto ce lo propone con volto di carne e corpo di statua; siamo sfiorati da quel suo ideale di incarnare una classicità d’altri tempi” nel proprio tempo e nella propria persona. Infine, l’artista compare finalmente in piedi nel proprio studio, nella classicissima posizione di tre quarti, con tanto di pennello, tavolozza e cavalletto. Ai suoi piedi una testa di statua punta dritto verso di noi, ci chiama in causa, non meno dello sguardo dell’artista, con gli occhi sempre fissi in quelli dello spettatore. I dipinti e le sculture della coppia Mafai-Raphael fanno da cornice alla ricostruzione reale di un angolo del loro studio; candelabri, manichini, vasi e feticci dialogano con le proprie “icone” appese al muro; in questo scambio allo spettatore è dato di tornare, per alcuni istanti, a quel momento fuori dal tempo in cui cose e luoghi si trasfigurano nell’atto pittorico. Il buio di una sala custodisce uno dei capolavori dell’esposizione. L’autoritratto di Felice Casorati affiora a malapena dall’ombra; un’immagine riflessa dallo specchio che non concede nulla alla caratterizzazione fisionomica. Il compito di fissare lo spettatore anche in questo caso è lasciato ad un oggetto, la testa di un manichino; gli occhi di smeraldo creano una struggente sinfonia in accordo con il verde broccato. Quanto è un semplice oggetto appoggiato al tavolo, tanto sembra vivo, dotato di espressione e di qualità interlocutorie. Un’altra testa di manichino abbassa lo sguardo e segna un ponte spaziale verso il pittore sullo sfondo che volontariamente fa del proprio sguardo una zona d’ombra assoluta. Il volto di Giorgio Morandi, in uno dei rarissimi autoritratti, non è velato dall’ombra ma dalla luce. L’artista si vede e si mostra così come fa solitamente con i suoi compagni di camera, i suoi oggetti: sfrondato ogni dettaglio ci appare solo come un corpo diafano fatto di toni e di luce, ed è sempre la luce, quella che tocca le spalle e la falda del cappello, a collocarlo nella sua camera – studio, pur senza pronunciarsi sullo spazio o sugli oggetti. E ancora volti e luoghi, a volte deserti, a volte accompagnati: la famiglia, la modella, un libro, un teschio, una statua; un travestimento allusivo delle persone o dello spazio. Eppure lo sudio e gli oggetti non ci parlano direttamente dell’artista; è l’artista stesso che si specchia in quell’ambiente e in quelle cose per mostrarsi nel proprio mistero, nel proprio dono. A volte non si mostra; si nomina appena, com’è per Guttuso, che ci fissa con la testa appoggiata alla mano, in compagnia della sola sigaretta. L’officina del mago – L’artista nel suo atelier, 1900-1950, Torino, Palazzo Cavour, fino all’ 8/2/2004 (catalogo Skira).

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