Livatino, a Roma la causa di beatificazione

Si è chiusa la fase diocesana del processo di beatificazione del giudice del Tribunale di Agrigento, assassinato dalla mafia. Quarantacinque persone hanno testimoniato su di lui. Tra questi, anche uno dei killer che, il 21 settembre del 1990, gli tolse la vita

Il 3 ottobre 2018, nella chiesa di Sant’Alfonso di Agrigento (la chiesa che sostituisce la Cattedrale di Agrigento, chiusa per problemi geologici) si è svolta la cerimonia pubblica di chiusura del processo diocesano di beatificazione di Rosario Angelo Livatino, il giudice originario di Canicattì, in servizio al Tribunale di Agrigento, ucciso in un agguato mafioso il 22 settembre 1990 mentre, in auto, percorreva la strada che collega Canicattì ad Agrigento. Si recava al lavoro, come ogni giorno, quel “giudice ragazzino” e non aveva scorta. I killer affiancarono la sua auto, Livatino scese e provò a fuggire lungo la scarpata. Inciampò e cadde a terra. I killer lo raggiunsero. «Che cosa vi ho fatto?», chiese Livatino. Poi, uno di essi, Gaetano Puzzangaro, infilò la pistola in bocca ed esplose un colpo.

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Ventotto anni dopo, le parole di Puzzangaro sono state inserite all’interno dell’ampio faldone che contiene gli atti del “processo diocesano”, che è stato chiuso il 6 settembre. Ora, gli atti verranno inviati a Roma. Documenti e testimonianze (quasi 4000 pagine) saranno esaminati dalla Congregazione delle Cause dei Santi. Il processo di beatificazione era stato aperto dall’arcivescovo di Agrigento, cardinale Francesco Montenegro, il 19 luglio 2011. I primi passi, però, erano stati avviati nel 1993, quando l’allora arcivescovo di Agrigento, monsignor Carmelo Ferraro, incaricò Ida Abate, che era stata insegnante del giudice Livatino, di raccogliere alcuni documenti su di lui. In quegli anni, c’erano anche i genitori di Rosario Livatino che collaborarono nella prima fase. Il percorso che portò all’avvio della causa di canonizzazione iniziò così.

Il cardinale Montenegro ha presieduto la celebrazione, apponendo il suo sigillo agli atti, insieme al giudice delegato, don Lillo Maria Argento, al promotore di giustizia don Giuseppe Cumbo, al notaio Rosario Gambino ed al postulatore della causa nella fase diocesana, don Giuseppe Livatino. La celebrazione, simbolicamente, si svolge nel giorno del compleanno di Livatino, che il 3 ottobre 2018 avrebbe compiuto 66 anni.

Puzzangaro, condannato all’ergastolo, oggi sconta la sua pena nel carcere di Opera. Qui, è stato, tra l’altro, intervistato a dicembre 2017 dal giornalista Fabio Marchese Ragona per il settimanale “Panorama”. Da vent’anni, ha iniziato un percorso spirituale, accompagnato dal cappellano del carcere e da altre persone. Infine, ha accettato di testimoniare nella fase di avvio del processo di canonizzazione. Il postulatore, don Giuseppe Livatino, lo ha incontrato nel carcere di Opera.

«Ho testimoniato per la causa di beatificazione di Livatino perché era doveroso – racconta nell’intervista a Panorama −. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a Messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori».

Aveva 22 anni, quando impugnò la pistola che freddò il giudice. Anche gli altri killer erano ventenni. Un altro killer, Domenico Pace (anch’esso ergastolano), ha chiesto anch’egli perdono qualche anno fa. Puzzangaro oggi vive nel ricordo, ma è anche un uomo che fa i conti con il proprio passato e che indica ad altri giovani una via diversa da seguire. Un anno fa, il 21 settembre 2017, una sua lettera dal carcere è stata letta durante la cerimonia pubblica di commemorazione del giudice Livatino, che si è svolta a Palma di Montechiaro, la città d’origine dei killer di Livatino. Palma di Montechiaro: la città del Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la città dei boss Ribisi e ora anche la città di Gaetano Puzzangaro. In quella lettera Puzzangaro scrisse: «Gli errori, anche i più atroci, vanno riconosciuti, anche se recano un dolore che dilania e descrivono il fallimento di una vita: la mia». E ancora: «Ho il dovere morale di condannare ogni atto criminale, mettendoci la faccia, in nome di chi è morto per la legalità, dei familiari delle vittime, della mia Sicilia martoriata. Ho il dovere morale di espormi come esempio fallimentare per tutti quei giovani che pensano di trovare nella criminalità organizzata eroismo, successo, soldi facili, rispetto. Vi prego: dite no ad ogni forma di organizzazione criminale».

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«La testimonianza di Puzzangaro è stata importante per il processo diocesano – spiega il giudice delegato, don Lillo Argento – è stato disponibile a farsi ascoltare. Ovviamente, le sue parole si affiancano a quelle di tutti gli altri “testimoni”. Ma io la definirei una “pietra miliare” di questo processo di canonizzazione».

Nell’ampio fascicolo ci sono anche le testimonianze riguardanti due presunte guarigioni, attribuite all’intercessione del giudice Rosario Livatino. Uno dei miracoli riguarda la guarigione di una donna di 50 anni, pugliese. Era affetta da leucemia. Il giudice ragazzino le comparve in sogno: subito dopo, inaspettata ed inspiegabile, la guarigione. Anche Elena Valdetara Canale, affetta da leucemia, era guarita improvvisamente, già nel 1993. Aveva visto su un giornale la foto di Rosario Livatino e ne era rimasta colpita.

Le parole di Montenegro, risuonano nella navata della chiesa, a suggellare questo momento solenne, che non a caso coincide con l’avvio del Sinodo dei giovani. E Rosario Livatino era un “giudice ragazzino”.

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Montenegro ha ricordato le fasi di avvio del processo di beatificazione. Tanti dubbi e, su tutti, una domanda ricorrente: «È vero, il giudice Livatino è stato ucciso dalla mafia, ma che bisogno c’è di dichiararlo santo? Tanti altri prima di lui e dopo di lui, purtroppo, sono morti per lo stesso motivo. Ha fatto il suo dovere ma perché portarlo agli onori degli altari?». Il cardinale ha risposto ricordando altri laici cristiani, Giovanna Beretta Molla, Piergiorgio Frassati, Giorgio la Pira, che hanno vissuto la “santità” nella perfezione del lavoro quotidiano. In Livatino, non ci sono “gesti eclatanti o parole esplicite” ma l’impegno «a portare il Vangelo dentro ciò che era chiamato a vivere ogni giorno, nella ricerca della giustizia e nel rispetto della dignità di ogni persona». E ancora: «Livatino ci può insegnare che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni ma, piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane (…) Livatino per noi è espressione di un cristianesimo a tutto tondo fatto di unione con Dio e di servizio all’uomo, di preghiera e di azione, di silenzio contemplativo e di coraggio eroico. Anche questa forma di esempio ci può aiutare a comprendere meglio cosa voglia dire essere cristiani in questo nostro tempo».

Gli atti diocesani, con i sigilli della Curia e quelli dell’arcivescovo saranno conservati nell’archivio della Curia. Il notaio e il giudice delegato hanno preso in consegna le copie che ora saranno trasmesse a Roma.

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