L’importanza di “adottarsi”

Cosa serve per la riuscita di un’adozione? Reciprocità e dialogo.
Famiglie

Apertura mentale, desiderio di conoscenza, disponibilità al dialogo e alla formazione. Per essere pronti ad affrontare un’adozione internazionale occorrono anche queste qualità. È una sfida, e non delle più semplici, e nessuno lo nasconde. Anzi. Se n’è infatti discusso, in un clima semplice e festoso, nel corso del terzo convegno sulle adozioni internazionali, dal titolo “Se ami il mio Paese ami me”, organizzato dalla nostra onlus, che si è svolto a Castel Gandolfo (Roma) lo scorso mese di giugno.

 

Un appuntamento molto atteso, che è servito anche ad analizzare alcune delle molteplici difficoltà vissute da bambini e famiglie nel delicato processo di integrazione reciproca e riuscire così a dare vita a relazioni vere e durature. Un obiettivo non semplice da raggiungere, visto che non in tutti i Paesi c’è grande attenzione nel preparare adeguatamente i bambini alla realtà che vivranno insieme ai nuovi genitori.

 

Giuseppe Milan, docente di Pedagogia interculturale all’università di Padova, ha spiegato innanzitutto che «il mondo delle adozioni è un laboratorio di esperienze. Include dinamiche relazionali che aiutano ad essere pionieri di un mondo dove tutti, persone e popoli, sappiano reciprocamente adottarsi».

 

Milena Santerini, docente di Pedagogia sociale e interculturale alla Cattolica di Milano e dirigente dell’Ente autorizzato per le adozioni internazionali, Acap-Sant’Egidio, ha invece parlato dell’importanza della preparazione della coppia all’adozione. «Per affrontare la relazione adottiva – ha affermato – i genitori sensibili devono vedere il bambino adottato, che viene da un’altra cultura, non “programmato” in un sistema rigido e predeterminato, ma come una persona in crescita che, avendo alcuni tratti innati e varie esperienze già fatte nei primi mesi o anni, è soprattutto aperto al cambiamento e alle influenze dall’esterno».

 

Eventuali esperienze negative vissute dal bambino, assicura la Santerini, «non rendono impossibile l’adozione. Non ci sono storie che non si possono recuperare, anche se spesso c’è un vissuto tormentato alle spalle dei bambini che hanno vissuto l’abbandono. La sofferenza non nasce solo dalle ferite subite, ma dal “racconto” che se ne fa. L’abbandono, la solitudine e le vicissitudini dell’infanzia possono essere riletti con fiducia nella vita e nel futuro a condizione che i genitori elaborino tale atteggiamento di speranza e possano comunicarlo ai figli. Imparare ad accogliere un bambino che viene da lontano – conclude la Santerini – significa cercare il difficile equilibrio tra libertà e protezione, tra ciò che l’identità culturale rappresenta e quello che può divenire».

 

Mentre Jane e Rejane parlano dal palco capiamo un po’ di più cosa questo significhi concretamente. Donne oggi realizzate professionalmente, sono arrivate in Italia nel 1984 dal Brasile all’età di sette anni. Facendo un balzo a ritroso nel tempo di 27 anni, ci fanno conoscere la loro esperienza: «Ricordo ancora – racconta Jane, psicologa – che alla stazione Termini di Roma io e mia sorella ci attaccammo alle rotaie del treno per non andar via con i nostri nuovi genitori. Per noi era tutto diverso: lingua, stili di vita, cultura, regole. Tante regole, troppe: baciare, salutare, mangiare in un certo modo, vestirsi. Mia madre in un mese dimagrì 20 chili».

 

A sette anni, aggiunge Rejane, di professione assistente sociale, i bambini cresciuti in una realtà difficile come l’istituto «non sanno fare i bambini, sono molto più attenti, scrupolosi, critici e diffidenti». Il dialogo diventa così la principale risposta d’amore dei nuovi genitori. «Si deve cercare di entrare nella mente del bambino, di capire il suo modo di fare. Come? Rivolgendogli domande e non imponendogli le cose. Bisogna mettersi nei panni di chi sta dall’altra parte».

 

Anche i racconti delle coppie che, superando l’imbarazzo, si sono susseguite sul palco, ci dicono che anche le esperienze più terribili possono essere superate. Non ci sono storie irrecuperabili per quanto tormentate. Mario e Rita, dopo tanti episodi difficili che hanno richiesto loro di mettere in gioco ogni risorsa, ci spiegano sorridenti: «Sono passati cinque anni dall’incontro con nostra figlia. Guardando indietro e percorrendo tutti gli avvenimenti fino ad oggi, ci rendiamo conto di aver fatto un percorso in salita ricco di eventi dolorosi, fallimenti ma anche conquiste. Tutti ingredienti necessari per farci essere una famiglia, genitori e figli». E ancora, a conclusione, tra lacrime di gioia: «Adottare una bambina di sette anni è una bella sfida che ci impegna per la vita! Ma ora avvertiamo tutto il suo amore per noi».

 

Maria Pina e Angelo, alla loro terza adozione, hanno non solo spalancato la casa e il cuore a figli che vengono da lontano, ma anche aperto alla cultura del Vietnam le porte di un’intera città – la loro -, attraverso attività di sensibilizzazione, campagne di raccolta fondi, contatti con le autorità locali a favore del Paese di origine dei loro figli. Maria Pina conclude:

«Con i nostri figli vive un pezzo di umanità nella nostra casa! Il Vietnam ci è entrato dentro e, avendo conosciuto tanti bambini negli istituti, cerchiamo nella nostra vita quotidiana di vivere anche per loro, organizzando diverse attività e partecipando ai progetti di sostegno. I nostri figli, con i loro sorrisi, ci riempiono il cuore e ci allargano lo sguardo sul mondo».

 

Servono genitori perfetti? No. Soltanto genitori amorevoli, accoglienti e generativi, capaci di reinventarsi e riconsiderare le proprie categorie mentali, disponibili al dialogo e alla reciprocità.

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons