Libia, quale futuro dopo l’accordo per il cessate il fuoco

Stephanie Williams, capo dell’Unsmil, la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia, ha definito l'accordo per il cessate il fuoco un "miracolo". Ancora non si sa se l'intesa è destinata a durare e se tutte le potenze straniere che hanno finanziato il conflitto, a partire dalla Turchia, faranno davvero un passo indietro, lasciando il Paese entro tre mesi.

Un lungo applauso nel Palazzo dell’Onu a Ginevra ha fatto seguito all’annuncio di un accordo tra le parti per un «cessate il fuoco nazionale, permanente e con effetto immediato» in Libia. L’accordo è stato siglato a Ginevra il 23 ottobre scorso con la mediazione della delegazione delle Nu guidata da Stephanie Williams, capo dell’Unsmil, la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia.

Nei 17 punti dell’intesa concordata con il gruppo dei 5+5 (5 rappresentanti del Gna di Tripoli e 5 del Lna di Tobruk, gruppo nato in seguito alla conferenza di Berlino del 19 gennaio 2020) si stabilisce in sostanza lo sblocco degli impianti petroliferi, la riapertura delle principali strade e dei voli interni, il ritorno di tutte le unità militari alle rispettive postazioni in vista di un loro ricongiungimento in un quadro istituzionale unico, l’uscita dal Paese di tutte le milizie straniere entro tre mesi, l’impegno reciproco delle parti a rinunciare alla retorica dell’odio su stampa e social, quello a mantenere la calma sulla linea del fronte e l’avvio di un piano di liberazione dei prigionieri.

Dopo l’accordo, i colloqui sono proseguiti e l’ultimo si è tenuto in Libia martedì scorso 3 novembre, a Ghadames. Stephanie Williams ha detto, riferendosi al gruppo dieci (5+5): «Hanno compiuto un miracolo, sfidando tutte le pressioni e superando tutte le difficoltà per dire a voce alta: no alla guerra, sì alla pace e all’unità».

Il prossimo obiettivo è un incontro in presenza fissato per il 9 novembre a Tunisi, al quale sono state invitate 75 persone: 13 scelte dal Parlamento di Tobruk e 13 dal Consiglio di Stato di Tripoli, alle quali se ne aggiungeranno altre 49 scelte dalle Nazioni Unite in rappresentanza delle minoranze geografiche, politiche, sociali e tribali del paese, dell’associazionismo civile, delle donne e dei giovani, oltre ai delegati civili delle milizie più importanti.

Alle 75 personalità convocate è affidato il compito di concordare la nascita di un nuovo governo di unità nazionale, in particolare di decidere i nomi dei tre futuri membri del Consiglio presidenziale (un Presidente e due vice) e di elaborare le procedure per indire nuove elezioni nazionali entro 18 mesi.

Com’era prevedibile, all’annuncio è seguita una ridda di indignate proteste e di scettici distinguo, sia all’interno del Paese che a livello internazionale. Ma è stato anche notevole l’assenso o almeno l’apertura di molte delle parti coinvolte in questi anni nel conflitto libico. Secondo l’ex ambasciatore britannico in Libia, Peter Joseph Millett, la questione principale è: «I Paesi che hanno appoggiato le forze militari in Libia saranno disposte ad accettare il compromesso raggiunto?». In particolare, l’articolo 2 dell’accordo di Ginevra prevede il ritiro dalla Libia entro tre mesi di tutti i mercenari stranieri e la sospensione di tutti gli accordi di addestramento militare sottoscritti dal Gna di Tripoli e dal Lna di Bengasi, finchè non vi sarà un nuovo governo unitario in grado di stabilire autonomamente alleanze e accordi.

Erdogan
Erdogan

Com’è noto, il Paese più coinvolto militarmente a sostegno di Tripoli è la Turchia, che schiera in Libia alcune centinaia di istruttori e consiglieri militari, aerei, droni e reparti di difesa aerea, unità navali e alcune migliaia di mercenari siriani. Accanto al generale Haftar e al Lna di Bengasi c’è non ufficialmente la Russia, con circa 3 mila contractor della compagnia militare privata Wagner, e gli Emirati Arabi Uniti che hanno inviato in Libia mercenari sudanesi e ciadiani: compagini anche queste che dispongono di aerei, droni ed elicotteri. Altri Paesi e movimenti non sono presenti militarmente, ma non è secondario il coinvolgimento di Qatar e Fratelli musulmani a sostegno di Tripoli; e di Egitto, Sauditi e Francia a sostegno di Bengasi.

Il più scettico, per non dire contrario, all’accordo di Ginevra sulla Libia, al gruppo dei 5+5 e alla road-map per trasformare il cessate il fuoco in qualcosa di più stabile è il Governo turco, che ha investito molto per ottenere la svolta militare che ha salvato Tripoli dall’invasione delle truppe di Haftar. Il presidente turco Erdogan è notoriamente interessato alla Libia anche in vista, non ne ha mai fatto mistero, di un controllo turco sullo sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale. Stephanie Williams, l’inviata Onu, sa bene cosa c’è dietro, tant’è vero che nei giorni scorsi è andata in Turchia per incontrare il ministro degli Esteri turco Çavuşoğlu.

Il piano di pace in Libia è un progetto ambizioso e irto di ostacoli, e non è detto che abbia successo, ma almeno qualcosa si muove. Con buona pace anche per l’Italia, che finora è apparsa probabilmente un po’ troppo concentrata sull’argine ai migranti che ad una politica estera di più ampio respiro con la Libia.

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