Les Sauteurs: la voce dei migranti

Tre registi si uniscono per uno sguardo unico e straordinario sulla inaccessibile comunità di migranti intrappolata sul monte Gurugù nell’enclave spagnola di Melilla, geograficamente in Africa, politicamente in Europa. Lì si trovano da mesi migliaia di uomini sub-sahariani che, incuranti dei fallimenti e del dolore, sono determinati a oltrepassare le barriere del confine saltando a soli pochi metri da dove si trovano affinché il loro destino possa cambiare. Al festival di  Berlino ha ottenuto l’Ecumenical Jury Award. Un grande documentario.

Un vero documentario girato senza filtri, senza grammatica di regia, senza inquadrature. Un insieme di piani sequenza senza sceneggiatura, attori, trucchi di montaggio. Non c’è bellezza estetica, né musica accattivante, eppure rivela la vita, riverbera il vissuto, restituisce il dramma di uno dei più grandi esodi dell’umanità, fornendo uno sguardo inedito e sconosciuto sulla inaccessibile comunità di migranti intrappolata sul monte Gurugù nell’enclave spagnola di Melilla, geograficamente in Africa, politicamente in Europa. Migliaia di uomini sub-sahariani vivono accampati per mesi in montagna, dormono per terra, mangiano in condizioni igieniche insostenibili per tentare il grande sogno di arrivare in Occidente. Non è lontano, è a portata di vista, ma sbarrato da muri, recinsioni e controllato a vista dalla polizia marocchina. Sono molteplici i tentativi andavi a vuoto, ma non demordono. Non c’è via di ritorno. C’è solo la volontà di ferro di chi non ha alternative, di chi non può tornare indietro per avere l’unica possibilità di avere un futuro migliore. Stiamo parlando di Les Sauteurs, un documentario di Moritz Siebert, Estephan Wagner, Abou Bakar Sidibé. Presentato in anteprima mondiale al Festival di Berlino 2016 dove ha ottenuto l’Ecumenical Jury Award e dopo essere stato selezionato in oltre 50 festival di tutto il mondo vincendo 15 premi tra cui l’Amnesty International Award, arriva nelle sale italiane. Al giovane malese Mali Abou Bakar Sidibé, viene affidata una telecamera per un anno, con in più un compenso affinché non la rivendesse subito. Per 16 mesi vive sulle montagne e la sua telecamera diventa il suo punto di vista per restituirci un documento senza precedenti sulla quotidianità di chi vive al di là di un muro che non fornisce per nulla sicurezza ad un confine, ma sta lì solo per essere scavalcato e violato. «La nostra impressione è che nelle immagini sulle tragedie nelle frontiere una voce sembra sempre mancare: la voce delle persone coinvolte» affermano i due registi Moritz Siebert e Estephan Wagner. Voluto dagli stessi produttori di The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, è stato definito dal regista «un capolavoro di empatia e di immaginazione morale».

Il documentario ha anche il merito di svelare che il viaggio più lungo, più pericoloso è via terra, dicono alcuni studi di diverse Ong che ci vogliono almeno due anni per arrivare dalle regioni sub-sahariane fino al Mediterraneo. La traversata in mare, anche se è l’unica che mediaticamente conosciamo e causa migliaia di morti, a confronto è molto più breve e meno dura. E nell’eventualità che l’approdo vada a buon fine «abbiamo paura – dice uno dei protagonisti del documentario – di arrivare in Europa e scoprire che tutto è stato vano». Un documentario che illumina e insegna che «se non hai mai sofferto non sai nulla della vita».

 

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