Leonard Cohen, 70 anni in grande stile

Immagino che quando si arriva ai settanta le cose della vita acquistino sapori, valori e prospettive assai diversi di quelli che si pensava possedessero qualche decennio addietro. O almeno questo sembrerebbe essere il sotto- testo che accompagna il nuovo album del poeta e cantautore canadese Leonard Cohen, una delle poche vere eminenze che la sub-cultura rock abbia saputo proporre in mezzo secolo di storia. Il colto anticonformismo di Cohen, antidivo per eccellenza, ha attraversato decenni di mode – musicali e no – senza cambiare mai: sussurri sospirosi, caldi timbri baritonali da tabagista incallito, contrappuntati da suadenti cori femminili e da arrangiamenti sempre ridotti all’osso. Anche il nuovo Dear Heather (Sony Music), non si discosta da una formula espressiva che, nonostante i suoi quasi quarant’anni di vita, continua a mantenere inalterato il suo fascino. Quel che è mutato – o si è evoluto…- è piuttosto l’anima, o meglio gli umori dell’intimo che fanno da sfondo e da radice alle nuove canzoni. Perché, se è vero che da un punto di vista squisitamente stilistico potrebbero tranquillamente appartenere ad uno qualunque dei suoi dischi degli anni Settanta e Ottanta, la loro essenza svela un approccio per molti versi inedito: quello di un vecchio saggio cui la vita ha insegnato a relativizzare (nel senso migliore del termine) quasi tutto ciò di cui è fatta: la fama e il talento, le glorie del proprio passato, le inquietudini del presente, le angosce di un futuro inevitabilmente limitato. In una parola la pesantezza del vivere. Dear Heather è forse il disco più libero e trasparente di Cohen, for’anche il più ondivago. Innanzi tutto perché da tempo il Nostro non ha più nulla da dover dimostrare o da ambire sul piano professionale, e perché non sembra ormai avere altri referenti che la propria coscienza e il proprio gusto. E così il buon vecchio Leonard spazia: da Lord Byron al folk del suo Québec, dalla villanella di Frank Scott allo scarno minimalismo delle sue nuove liriche: sorvolando con la levità di un aliante i propri ricordi, i fantasmi di amori ed amici scomparsi, le tragedie della post-modernità (la disarmante semplicità di On that day dedicata all’11 settembre è emblematica). Mentre le splendide voci di Sharon Robinson e Anjani Thomas sembrano sostenere la sua come un tappeto di velluto un diamante grezzo. Evidentemente il buddhismo e la cultura zen hanno davvero lasciato un segno profondo. Smessi i panni dell’intellettuale aristocratico e un po’ narciso, riaffiora la pelle grinzosa di un vecchio perfettamente cosciente che il tanto vissuto non è bastato a spiegare quasi nulla dell’umana esistenza, se non la sua volubile precarietà. Non ha messaggi da lanciare al mondo il Cohen del terzo millennio, se non un amore viscerale per le cose belle di cui è fatta, talvolta, la vita. Da qui la sorprendente leggerezza d’approccio e l’umiltà di un lavoro che ha più le sembianze di un quaderno di schizzi che non di un’opera meditata in mesi di lavoro. Ma se è vero – com’è vero…- che Cohen è uno dei pochi che fa dischi solo se ha davvero qualcosa da dire (solo undici album di studio e tre live dal ’67 ad oggi), allora è altrettanto vero che dietro questi tredici frammenti c’è qualcosa di più profondo e prezioso di una nuova collezione di canzoni. Qualcosa che in verità sta nel profondo del cuore di ciascuno, e che solo i grandi artisti sanno tirar fuori: per restituirglielo. Franz Coria

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