L’embrione, uno di noi

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla legge 40 e la battaglia per la salvaguardia della vita nascente.
un feto

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia a risarcire una coppia che non ha potuto ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto a causa del divieto contenuto nella legge 40/2004. La sentenza colpisce per la superficialità procedurale e sostanziale. Si tratta di una decisione non definitiva, sulla quale il governo italiano ha già annunciato ricorso. La superficialità riguarda soprattutto il merito della sentenza. La Corte ritiene che il divieto di diagnosi genetica pre impianto sia incoerente rispetto alla possibilità di abortire per anomalie o malformazioni del nascituro.
La legge italiana sull’aborto (194/1978), per quanto ingiusta, non consente l’aborto eugenetico, cioè l’eliminazione del figlio in quanto affetto da patologie. Sia nel primo trimestre che nel periodo successivo, le malformazioni del nascituro permettono legalmente l’aborto solo se determinano una malattia fisica o psichica della madre. Sappiamo che il “serio” o “grave pericolo” per la salute della donna è un facile pretesto per eliminare il figlio sgradito, ma non possiamo ignorare il fatto che la legge esclude la finalità eugenetica e che nella giurisprudenza italiana sull’aborto è costante l'affermazione che non esiste il “diritto ad avere un figlio sano”.
 
La finalità eugenetica è, invece, evidente e intrinseca nella diagnosi genetica preimpianto che, tra le altre cose, implica la “produzione” di un elevato numero di embrioni proprio a fini selettivi. Semmai è la legge sull’aborto che va rivista alla luce di quella sulla fecondazione artificiale. La legge 194/1978, infatti, si limita a “tutelare” la vita umana (anche le cose si possono “tutelare”), mentre la 40/2004 riconosce i diritti del concepito (titolari dei diritti sono gli esseri umani); la legge 194/1978 non riconosce il concepito come soggetto, mentre la 40/2004 lo riconosce espressamente come tale.
L’“incoerenza” indicata dalla Corte non tiene conto della differenza tra procreazione naturale e artificiale, tra la situazione del concepito che si trova in una provetta e di quello che si trova nel grembo della madre, tra diagnosi genetica preimpianto e diagnosi prenatale.
Inoltre, si trascura che nel dibattito nazionale, europeo e internazionale non mancano documenti di alto valore giuridico favorevoli al riconoscimento del diritto alla vita del concepito e della sua piena dignità umana: si pensi alle Costituzioni ungherese, irlandese, slovacca, ceca; alla giurisprudenza costituzionale italiana, tedesca, polacca e ungherese; alle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sull'ingegneria genetica (n. 934/1982), sull'utilizzazione degli embrioni e dei feti umani ai fini diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali (n. 1046/1986), sulla ricerca scientifica relativa ad embrioni e feti umani (n. 1100/1989); alle risoluzioni del Parlamento europeo adottate il 16 marzo 1989 sui problemi etici e giuridici dell’ingegneria genetica e della procreazione artificiale; alla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 18 ottobre 2011; alla Convenzione americana sui diritti dell’uomo.
 
Per giunta, nella sentenza la Corte ha trascurato la sua stessa giurisprudenza, secondo cui non si possono trarre conclusioni sul diritto alla vita del concepito: sussistono infatti posizioni diversificate all'interno dei singoli Stati, ai quali si lascia libertà di decidere.
Infine, superficiale è il riferimento all’art. 8 della Convenzione europea per sostenere l'esistenza di una illecita ingerenza dello Stato italiano nella vita privata e familiare. La norma, infatti, considera la protezione "dei diritti e delle libertà altrui" come eccezione all’ingerenza, e per la legge italiana è proprio questo il punto: il divieto di diagnosi genetica preimpianto è diretto alla protezione dei diritti dell’embrione umano considerato un “altro”.
In questo contesto, colpisce la lapidaria e non argomentata affermazione secondo cui «la nozione di embrione e quella di bambino non devono essere confuse». Una frase che sembra voler “giustificare” la logica del “creare” per selezionare e distruggere chi è appena concepito, ma non ancora nato.
Una frase, in realtà, gravemente discriminatoria e, ancora una volta, superficiale. Discriminatoria, perché esclude il più piccolo e inerme degli esseri umani dal regno dei bambini e dunque da quello degli esseri umani titolari di diritti. Superficiale, perché proprio la Convenzione sui diritti del fanciullo (Onu 1989), ratificata dall’Italia nel 1991 (legge 176), afferma che: «Il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e psichica, necessita di protezione legale adeguata sia prima che dopo la nascita» (preambolo) e che è «fanciullo ogni essere umano avente età inferiore a diciotto anni» (art. 1).
 
Alla luce della decisione del 28 agosto scorso è ancor più evidente l’importanza di due iniziative, una italiana e una europea. La prima riguarda la proposta di riconoscere la capacità giuridica dell’embrione attraverso la modifica dell’art. 1 del Codice civile. La seconda, “Uno di noi”, promossa dai Movimenti per la Vita europei, chiede di impedire l’erogazione di somme di denaro per la distruzione di embrioni umani. Se non si salva il concepito, viene stravolto il senso dei diritti umani, della dignità umana e del principio di uguaglianza.

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