Le ricamatrici

Fin dalle prime scene vediamo una ragazza diciassettenne cupa e sola. È stata messa incinta da un giovane con cui non ha un rapporto profondo. Ha deciso di non rivederlo più, di nascondere la gravidanza a tutti, anche alla madre, e di far adottare il nascituro, partorendolo in anonimato. Ma il passare dei mesi favorisce una sua maturazione, fino alla decisione gioiosa di tenere il figlio. È l’opera prima di Eléonore Faucher, che ne ha avuto un riconoscimento dalla critica e che si era di- instinta, già precedentemente, per dei cortometraggi riusciti. Ambientata nella provincia e girata con stile essenziale, non mira ad essere facile spettacolo né a captare l’attenzione con una storia avvincente. Mantenendo uno sguardo rivolto alla terra e alle pulsioni istintive, ci introduce nella dimensione sentimentale della ragazza: i timori per la scoperta dell’inattesa gravidanza, le intime scoperte dei mutamenti del corpo, il primo affacciarsi delle emozioni materne, il loro lento consolidarsi grazie all’incoraggiamento degli adulti. Particolarmente toccante è vedere come l’addolcimento della ragazza proceda con l’approfondirsi del rapporto tra lei e la matura ricamatrice, che l’ha assunta e che finisce per considerarla come figlia. Il pregio del film sta nel far intuire un timido ciclo vitale nascente nell’animo, parallelo a quello nascosto, attivo nell’utero. Motivo ripreso, anche, dalle immagini dei ricami, che crescono sotto le mani pazienti delle due lavoratrici, complessificandosi e abbellendosi sempre più. C’è anche il manifestarsi dell’amore per un altro giovane, che, però, sta per partire e rimanere assente per anni. E il nascituro sarà una femmina. Forse l’autrice ha voluto concentrarsi su una situazione tipica tutta al femminile, un mondo di sole donne, non raro ai nostri giorni. Ne ha mostrato con realismo le difficoltà esistenziali e le sofferenze nascoste, ma anche le tenaci forze vitali e le gioie del divenire madri. Regia di Eléonore Faucher; con Ariane Ascaride, Lola Naymark.

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