Le intuizioni di Einstein

Articolo

1905. Un ventiseienne sconosciuto, ebreo e tedesco, lavora come semplice impiegato presso l’Ufficio brevetti svizzero. Ha una laurea in fisica e una tesi di dottorato respinta dall’Università di Zurigo, ma una grande passione per la fisica, alla quale si dedica nel tempo libero e, di nascosto, sul posto di lavoro. È Albert Einstein, colui che affermò che i fisici del suo tempo erano incapaci di capire i problemi e lo dimostrò. Infatti, proprio in quell’anno, egli pubblicò una serie di cinque articoli che riportavano le sue sorprendenti intuizioni, destinate a rivoluzionare per sempre il pensiero scientifico. Cent’anni dopo, in suo onore, la comunità internazionale dei fisici designa il 2005 Anno mondiale della fisica. Quel giovane, in effetti, doveva apparire un po’ strano ai fisici dell’epoca, ardente com’era di nuove idee. Si pensi che l’Università di Zurigo gli rifiutò, per il suo dottorato, l’articolo sulla teoria della relatività speciale, considerato, a detta della sorella, un po’ strano. Ne propose allora un altro che riguardava la determinazione delle dimensioni molecolari e che gli fu accettato nel luglio del 1905. Subito dopo, in quello stesso anno, Einstein pubblicò un altro importante articolo sul moto di particelle sospese in liquidi a riposo. Va detto che, in quell’epoca, l’idea di atomo era ancora controversa, e proprio per fornire una garanzia della esistenza di atomi di grandezza definita, egli studiò a fondo il fenomeno che andava sotto il nome di moto browniano, dal nome di Robert Brown, che notò come particelle di polline sospese in un liquido effettuassero movimenti a zigzag, facilmente osservabili a un microscopio. Einstein riuscì a darne una spiegazione, ipotizzando che il movimento delle molecole del liquido sarebbe stato così intenso da spingere qua e là le particelle di polline sospese. È lo stesso principio governante l’espansione delle particelle che, colpendo le cellule sensibili del nostro naso, ci portano l’o- dore di un mandarino o di un’arancia appena sbucciati. In quell’epoca Einstein si definiva schiavo dei brevetti, ma in uno dei cinque articoli pubblicati nel corso di quell’anno, ve ne era uno che gli valse il Premio Nobel per la fisica, conferitogli poi nel 1922. L’articolo, che è alla base della comprensione dell’effetto fotoelettrico, fu pubblicato a giugno sugli Annalen der Physic e apriva la strada all’accettazione della doppia natura della luce, come particella e onda al tempo stesso, considerato uno dei fondamenti della fisica quantistica. L’effetto fotoelettrico è oggi alla base di varie tecnologie: basti pensare al semplice meccanismo di accensione automatica dei lampioni con il calare della luce. Ma a conferire ad Einstein il titolo di genio fu l’articolo completato alla fine del giugno 1905 e pubblicato a settembre con il titolo Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, dove espose i fondamenti della famosa teoria della relatività speciale. Quello di Einstein è un nome conosciuto da tutti, anche da quelli a cui la fisica non è mai piaciuta, oppure che, a sentirne parlare, ti rispondono: Io ero bravo a giocare a pallavolo! . Egli rappresenta, per antonomasia, la figura del genio. Un genio incompreso da molti dei suoi stessi colleghi e oggi ancora dalla maggioranza dei non addetti ai lavori. La sua teoria della relatività generale, infatti, è ancora oggetto di discussioni scientifiche tra opposte fazioni. In effetti gli scienziati hanno trascorso tutto il XX secolo nella verifica, applicazione e comprensione delle idee che emergevano dal lavoro di Einstein. Un lavoro ampio che contribuì non solo allo sviluppo della teoria della relatività, con la quale rivoluzionò i concetti di spazio, tempo e gravità, ma anche contribuì a sviluppare la nascente fisica quantistica, e portò a una maggiore comprensione del comportamento delle molecole, favorendo lo sviluppo della moderna fisica statistica, utilizzando metodi matematici che sono stati poi impiegati per simulare sia il comportamento delle sostanze inquinanti nell’aria sia le fluttuazioni dei mercati azionari. Egli portò realmente uno sconvolgimento, non solo nel pensiero scientifico, ma anche nel pensiero filosofico del XX secolo. E in tutta onestà, tale sconvolgimento, misto a stupore, avviene ancora nella mente di chi prova ad avvicinarsi alle idee einsteiniane su spazio, tempo e gravità. Ma che cosa è la fisica e perché Einstein fu tanto grande da essere considerato un genio? In tanti rimangono scottati da questa materia scolastica un po’ ostica, forse solo perché viene presentata male. Ma la fisica, che ha in sé molte diramazioni, è una disciplina che cerca semplicemente di spiegare i fenomeni naturali fondamentali, attraverso modelli e teorie, fondandosi sulla sperimentazione. È una disciplina che ricorre, in maniera sostanziale, alla matematica, con la quale v’è un connubio perfetto. I risultati delle ricerche scientifiche di base entrano nella nostra vita in maniera sempre più importante senza che nemmeno ce ne accorgiamo: per fare solo un semplice esempio, pensiamo al laser, utilizzato nei lettori cd e dvd, nelle discoteche come semplice fascio di luce o nel campo medico per effettuare importanti operazioni chirurgiche. Einstein aveva una vera passione per la ricerca, ed è stata proprio la sua capacità di analisi attenta della realtà e dei fenomeni che essa manifesta, mista alla sua capacità di astrazione, a permettergli di superare ogni tentativo di riconfigurare le profonde crisi della fisica dell’epoca all’interno di uno scontato schema logico di senso comune. Come abbiamo visto, vari sono i contributi che egli ha dato allo sviluppo della fisica moderna. Si pensi, ad esempio, oltre al laser e all’effetto fotoelettrico, ai più complessi satelliti che permisero ai primi progettisti di sviluppare il sistema Gps, sistema in grado di misurare con precisione latitudine, longitudine e altitudine del punto in cui ci si trova; o agli affascinanti modelli sull’origine dell’universo; allo sviluppo delle teorie dei buchi neri; alla famosa formula E=mc2 e alla famosa idea che la velocità della luce è la massima velocità raggiungibile in natura. Parlando di Einstein, normalmente, si finisce sempre per parlare della teoria della relatività. Essa è, in linea di principio, molto semplice ma molto complessa nel suo sviluppo matematico; vi si parla di spazio, tempo, massa, gravità, luce. La teoria della relatività ha richiesto, nel corso degli anni, il contributo di molti scienziati per una piena comprensione delle sue implicazioni. Essa è fondata su due importanti articoli di Einstein, quello del 1905, in cui viene enunciata la teoria della relatività cosiddetta speciale o ristretta, e l’altro del 1916, dove viene enunciata la cosiddetta teoria della relatività generale. Il primo articolo spazza via, in modo definitivo, il concetto di spazio e tempo assoluti che la fisica aveva fino ad allora utilizzato e il cui principale assertore era Newton, padre della fisica classica. Secondo Newton, tutti gli eventi dell’universo fisico, come ad esempio un cavallo in corsa, o la propagazione di un fascio luminoso, avvengono come in una grande stanza a tre dimensioni, rispetto alle cui pareti si possono riferire tutti i moti degli oggetti che vi stanno dentro e in cui il tempo scorre uguale per tutti, senza che gli eventi stessi modifichino tale spazio e tale tempo. Questo è forse il concetto che tutti noi abbiamo di spazio e di tempo, valido per i nostri ambiti di vita quotidiana. Alla fine del secolo XIX, però, James Clerk Maxwell sviluppò le famose equazioni alla base dell’elettromagnetismo, le quali mostravano che le onde elettromagnetiche (ad esempio, la luce o le onde radio) si muovono attraverso lo spazio come onde, fatto che gettò i fisici dell’epoca in una crisi profonda. Tutti sappiamo che le onde, per propagarsi, hanno bisogno di un mezzo (si pensi alle onde del mare): così i fisici immaginarono che le onde elettromagnetiche dovessero propagarsi attraverso un mezzo che battezzarono col nome di etere. Si discusse molto dell’esistenza o meno di questo etere. Dalle equazioni di Maxwell risulta che la luce si muove a 300 mila chilometri al secondo rispetto a questo mezzo, che è immobile rispetto al sistema di riferimento assoluto di Newton. Appena ci si muove rispetto all’etere, la luce dovrebbe avere una velocità differente, esattamente come quando su un’automobile osserviamo un altro veicolo venire verso di noi, la velocità risultante sarà la somma delle velocità delle due automobili. Furono fatti molti esperimenti ma sempre la velocità della luce risultava essere di 300 mila chilometri al secondo qualunque fosse la velocità della sorgente di luce. Fu un duro colpo per i fisici dell’epoca. Newton, perdonami, implorò Einstein dopo che ebbe cancellato l’assolutezza di spazio e tempo! Infatti, secondo lui, la natura è molto semplice ed equa, non deve esistere un sistema di riferimento che abbia privilegi di sorta rispetto ad un altro, neanche rispetto all’elettromagnetismo. Einstein arrivò così ad affermare, nel suo articolo sulla relatività speciale, che non ha più senso parlare di spazio e tempo assoluti e stabilì che la velocità della luce è una costante di natura, ed è sempre uguale a 300 mila chilometri al secondo (nel vuoto). Ma se la velocità della luce deve essere sempre la stessa (sia che l’osservatore stia fermo o in movimento) e la velocità è uguale allo spazio percorso diviso il tempo impiegato a percorrerlo, allora ne segue che i corpi in movimento subiscono contrazioni spaziali nella direzione di movimento e dilatazioni temporali! Così muovendosi in automobile a velocità sempre più prossima a quella della luce, un osservatore fermo sulla stra- da vedrà la nostra automobile accorciata nella direzione di moto e percepirà che il nostro tempo passa più lentamente rispetto al suo. Tali fenomeni sono praticamente nulli nel caso di piccole velocità come anche di quelle della Formula Uno, mentre sono rilevanti per velocità molto elevate, come potrebbe essere quella di un razzo. Dopo quattro anni, nel 1909, Einstein viene nominato professore straordinario di fisica teorica all’Università di Zurigo, nel 1910 ha un figlio, nel 1914 ottiene una cattedra all’Università di Berlino e si separa dalla moglie Mileva che ritorna a Zurigo con i figli. Ed eccoci al 1916, anno in cui pubblica I fondamenti della teoria generale della relatività, dove dimostra la sua vera genialità. È un articolo che colpisce al cuore la visione del mondo su grande scala, e sarà proprio grazie ad esso che potrà farsi strada la famosa idea del Big Bang come punto d’inizio dell’universo. In quell’articolo egli espone la teoria generale della relatività, una teoria fondamentale che riguarda l’estensione del principio di relatività, enunciato nel 1905, ai corpi che si muovono con velocità non costante, come ad esempio una automobile che accelera (nell’articolo del 1905 si parlava solo di corpi in movimento con velocità costante) fino ad arrivare ad includere la più universale delle accelerazioni che è la gravità. Tutti sappiamo che la gravità è quella forza che attira i corpi verso il suolo terrestre, accelerandoli, e che permette alla Terra di girare intorno al Sole. Con la teoria della relatività generale, dopo anni di studio e di esperimenti mentali, egli arrivò a formulare il principio fondamentale che accelerazione e gravità sono equivalenti e indistinguibili. Per capire meglio proviamo a fare un esperimento mentale sul genere di quelli fatti da Einstein. Immaginiamo di essere dentro un ascensore, in mezzo allo spazio vuoto e in assenza di gravità, dal quale non si possa vedere fuori. Se ad un certo punto l’ascensore viene accelerato con dei razzi, si avrà l’effetto di sentirsi schiacciati verso il pavimento, un tale effetto è simile a quello dovuto alla gravità (se si riesce a raggiungere, con i razzi, una accelerazione simile a quella della gravità terrestre, sembrerà di essere sulla Terra e non più nello spazio vuoto), e non si potrebbe così distinguere se ci si trova in prossimità di un campo gravitazionale o semplicemente si è accelerati dai razzi. Il fatto di non poter distinguere la differenza tra due situazioni, in fisica, vuol dire che c’è equivalenza tra le due situazioni stesse. Da questi semplici ragionamenti, opportunamente trasformati in una teoria ampia e matematicamente complessa, egli arrivò a conclusioni sconcertanti. Mentre Newton aveva concepito la gravità come una forza che agisce istantaneamente a distanza, per Einstein la gravità è una proprietà intrinseca dello spazio e del tempo, causata dalla deformazione dello spazio-tempo stesso a causa delle masse. Si potrebbe cioè pensare lo spaziotempo come a un telo teso che subisce deformazioni, incurvandosi, laddove vengono posizionati oggetti massivi; facendo passare una pallina in prossimità di tale zona incurvata del telo, la pallina cadrà sull’oggetto che deforma il telo stesso, ottenendo l’effetto di attrazione gravitazionale. Siccome lo spazio-tempo è il mezzo attraverso il quale si sposta anche la luce, allora, se questo risulta incurvato dalle masse, anche la luce seguirà traiettorie curve per spostarsi da un punto all’altro dell’universo: ed è quello che venne verificato, come previsione della teoria di Einstein, in una famosa eclisse solare del 1919, in cui verificò la deflessione della luce proveniente dalle stelle che per raggiungere la Terra dovevano passare in prossimità del Sole. Fu uno dei primi successi della teoria di Einstein, sottoposta poi negli anni a numerose verifiche. Essa risulta ancora una delle teorie inscalfibili della fisica. La Nasa ha da poco messo in orbita una sonda spaziale destinata a verificare vari postulati della teoria generale della relatività. Egli lavorò, negli ultimi anni della sua vita, a una teoria del tutto che unificasse gravità e fisica quantistica, ma senza successo. Morì nel 1955, in ospedale, in seguito alla rottura dell’aorta. Poco prima di morire scrisse all’amico Bertrand Russell, accettando di aggiungere il suo nome a un manifesto che chiedeva a tutte le nazioni di rinunciare alle armi nucleari. Lui, che nella sua famosa formula E= mc2 compendìo la potenza distruttrice delle bombe nucleari, sancendo l’equivalenza tra massa ed energia, firmò quel documento proprio perché ne capiva il significato profondo.

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