Le armi, il papa e il grido di Abele

L’ipocrisia dei porti chiusi alle persone in fuga da guerra e miseria, ma aperti al traffico di armi. Le parole inequivocabili di Francesco
EPA/YAHYA ARHAB

«Basta ipocrisia. No armi ai sauditi». Lo striscione issato del 2017, nel giorno della festa di san FraASSISI ncesco ad Assisi, provocò la immediata reazione delle forze dell’ordine che lo fecero ammainare, anche perché spuntava sotto gli occhi di un presidente del consiglio che aveva definito inevitabile l’invio di bombe per la guerra in corso nello Yemen.

Ancora più esplicito è stato papa Francesco il 10 giugno 2019 nel discorso rivolto alla riunione delle opere per l’aiuto alle chiese orientali. Alcuni titoli hanno sottolineato il riferimento «all’ira di Dio che si scatenerà contro i responsabili dei Paesi che parlano di pace e vendono le armi per fare queste guerre. Questa ipocrisia è un peccato».

Ogni accomodamento curiale è bandito da questo grido profetico che parte, come sempre, dalla prospettiva delle vittime, da coloro «che non hanno cibo, quelli che non hanno cure mediche, che non hanno scuola, gli orfani, i feriti e le vedove levano in alto le loro voci. Se sono insensibili i cuori degli uomini, non lo è quello di Dio, ferito dall’odio e dalla violenza che si può scatenare tra le sue creature, sempre capace di commuoversi e prendersi cura di loro con la tenerezza e la forza di un padre che protegge e che guida».

A coloro che continuano a raccontare la triste storia della indifferenza generale che giustifica ogni complicità con il male, Città Nuova ha mostrato che esiste un’ altra umanità e quindi un modo più giusto di stare al mondo. Come quella dei portuali genovesi che qualche giorno addietro si sono rifiutati di caricare armi su un cargo saudita partito dagli Usa per fare rifornimento di armi nei porti europei.

EPA/YAHYA ARHAB
EPA/YAHYA ARHAB

Continuiamo a raccontare di consigli comunali che, di fronte alla paralisi di governo e camere, approvano mozioni per sollecitare lo stop all’invio di bombe aeree della classe MK80 destinate alla guerra yemenita, definita dagli esperti Onu la più grave crisi umanitaria esistente.

Il 31 maggio, non i parlamentari e le istituzioni ma solo alcuni cittadini del comitato riconversione Rwm (fabbrica che quella bombe produce) si sono visti sul molo di Cagliari per denunciare il carico effettuato direttamente sulla nave della stessa compagnia saudita che percorre il globo per rifornire il secondo mercato delle armi al mondo.

cagliariOvviamente il caso in questione è solo un dettaglio di un gigantesco meccanismo che brucia ogni anno mille e 700 miliardi di dollari. Ma è l’esempio più eclatante della insostenibilità e indifendibilità di un sistema che può stare in piedi solo grazie alle complicità e ai silenzi di tanti. Nel caso in questione è in gioco la mancata applicazione della legge 185 del 1990 e del Trattato Onu sul commercio di armi. Materia al centro di una denuncia circostanziata con una conferenza pubblica preso la sala stampa estera di Roma e presa in carico dalla Procura della repubblica della Capitale.

Ma, oltre le responsabilità accertabili dalla giustizia, resta quel grido del difensore degli oppressi che disturba e fa comprendere la profonda inimicizia dei troppi che tale stato di cose giustifica.

Perché, alla radice, è compromesso il fondamento della nostra convivenza. A partire dalla crisi epocale dell’Europa. Come ancora dice Francesco, «Gridano le persone in fuga ammassate sulle navi, in cerca di speranza, non sapendo quali porti potranno accoglierli, nell’Europa che però apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti, capaci di produrre devastazioni che non risparmiano nemmeno i bambini. Questa è l’ipocrisia della quale ho parlato.  Siamo qui consapevoli che il grido di Abele sale fino a Dio».

 

 

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