L’avventura di un povero cristiano

A 50 anni dal premio Campiello ad Ignazio Silone, una riflessione sulla statura umana di questo grande scrittore oggi poco considerato, “una grande anima” che ebbe un rapporto personale con Igino Giordani

Esattamente cinquant’anni fa, il 3 settembre 1968, veniva consegnato ad Ignazio Silone il Premio Campiello per il romanzo L’avventura di un povero cristiano. Lo scrittore, indisposto, non poté presenziare alla cerimonia di premiazione all’isola di San Giorgio a Venezia ma poté collegarsi da casa grazie alla Rai; e questo fu un fatto eccezionale, quasi avveniristico per quei tempi. Singolare fu anche il vantaggio del vincitore sugli altri; il romanzo di Silone ebbe 141 voti contro i 64, 44, 19 e 13 degli altri finalisti.

L’avventura di un povero cristiano ebbe un grandissimo successo editoriale e di critica e con il suo ultimo romanzo pubblicato in vita Silone divenne finalmente conosciuto anche al grande pubblico del suo paese; l’autore a più riprese venne allora autorevolmente definito il più grande scrittore italiano del secolo.

Fu una grande anima quella di Silone; la portata etica del messaggio è enorme e sovrasta tutti gli altri valori del romanzo; tanto che si direbbe che Silone avesse più motivazioni etiche nello scrivere che non letterarie. Silone scrive per l’urgenza di dover proclamare il suo alto e sincero messaggio. Secondo lui «La funzione più nobile dello scrittore è di trasformare l’esperienza in coscienza. Vivere e rendersi conto».

Silone si definiva “post risorgimentale e post marxista”: aveva abbandonato anche l’ideologia del cristianesimo per ritrovarsi in fondo a vivere, da militante, l’impegno di una vita reale intrinsecamente cristiana.

Per essere fedele ai suoi retti ideali Silone visse durissimi drammi interiori e patì la persecuzione sia umana che politica, proprio come i protagonisti dei suoi romanzi, eroi “tutti d’un pezzo”: Pietro Spina, militante politico clandestino durante il fascismo che rischia seriamente la vita; Berardo Viola che, per l’ideale antifascista, in Fontamara affronta la tortura e la morte in carcere; Luca Sabatini che affronta una lunga galera pur di non confessare un amore segreto.

E infine appunto Pietro da Morrone, monaco santo, eremita sulle montagne abruzzesi, che per la grave crisi della curia di Roma accetta di essere eletto papa. Ma l’ambiente della curia romana è difficile, duro, così lontano dalla sua semplicità di cuore e dagli ideali cristiani che papa Celestino, senza esitazione, si dimette il 13 dicembre 1294, ad appena quattro mesi dall’incoronazione, e torna alla santa vita del monaco eremita. Le dimissioni furono clamorose, Celestino sarà il sesto papa della storia a dimettersi; prima di lui, centocinquant’anni prima, s’era dimesso Gregorio VI; il settimo papa a rinunciare al ministero petrino, oltre 700 anni dopo, sarà proprio Benedetto XVI.

Nemmeno Dante nella Commedia perdonerà il clamoroso gesto di Celestino accusandolo d’aver commesso “per viltade il gran rifiuto”. Ma non fu viltà, fu coraggio, fu solo lampante purezza di cuore.

Il romanzo di Silone è scritto in forma teatrale, ma non è una vera opera di teatro, né un romanzo storico: è un romanzo-saggio che ripercorre nella versione più bella e brillante lo schema degli altri romanzi dello scrittore. Silone aveva l’originalità di affermare di aver voluto scrivere, “sette volte la stessa cosa”, lo stesso medesimo percorso del cuore, pur con personaggi, ambientazioni ed epoche storiche diverse.

Il racconto, ben argomentato dal punto di vista della storia e dei luoghi, si svolge tra il maggio 1294 ed il maggio successivo, non indulge nei compiacimenti di un romanzo storico ambientato in pieno medioevo. Il cardinal Caetani ed il povero Cerbicca, il principe, l’artigiano, il prelato ed il poveretto parlano lo stesso linguaggio, non accennano a un linguaggio aulico né a gerghi popolareschi medievali, parlano tutti un linguaggio d’oggi; e pare ovvio che sia così.

Silone disegna il profilo davvero luminoso dell’uomo semplice, dell’abruzzese marsicano più vero, che ritiene di non poter venire ad alcun compromesso per conciliare i doveri del trono con i principi di vita di un cristiano autentico. Recensendo il romanzo, nel 1968 Giancarlo Vigorelli scrisse che Silone con Celestino «ha riscatenato e rappresentato l’eterno dramma del cristiano che è nel mondo ma non deve essere del mondo».

Igino Giordani, allora direttore di Città Nuova, celebrò l’evento del premio letterario al romanzo di Silone con un editoriale nel quale ricordava la statura umana dello scrittore ed il felice rapporto di ammirazione e rispetto reciproco tra i due letterati, che si erano conosciuti e stimati alla Camera dei Deputati pur seduti sui banchi di fazioni politiche opposte.

Quale è oggi il valore di Ignazio Silone? La sua popolarità pare assai decaduta. Eppure la grave crisi di ideali del nostro tempo e del nostro paese potrebbe dirsi risolta quando riscoprissimo lo spirito radicale ed autentico del grande scrittore abruzzese, la purezza di ideali, la persona umana assunta come valore.

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