L’artista non è mai povero

Babette e la Norvegia di metà Ottocento di Karen Blixen. Due capolavori: il racconto e il film

«In Norvegia c’è un fiordo – un braccio di mare lungo e stretto chiuso tra alte montagne – che si chiama Berlevaag Fjord. Ai piedi di quelle montagne il paese di Berlevaag sembra un paese in miniatura, composto da casine di legno tinte di grigio, di giallo, di rosa e di tanti altri colori».

Sembra l’avvio di una favola, e in realtà Il pranzo di Babette – perché di questo incantevole racconto di Karen Blixen si tratta – ha l’andamento di una favola con tanto di morale finale, alla cui fama ha fortemente contribuito la fedele trasposizione cinematografica realizzata nel 1987 dal regista danese Gabriel Axel.

Prima di addentrarmi in questo gioiello letterario vorrei, com’è mio solito, indugiare un po’ sui luoghi che ne formano lo scenario: la penisola di Varanger che si protende sul Mar di Barents, regione isolata ricca di rocce e tundra, ma priva di alberi autoctoni a causa delle estati fredde e ventose (d’inverno però le temperature sono mitigate dalla corrente del Golfo). Berlevaag, il minuscolo abitato costiero di cui parla la scrittrice danese, pur avendo conosciuto uno sviluppo dalla seconda metà dell’Ottocento, epoca del racconto, resta tuttora un villaggio con poco più di mille abitanti.

Quanto al film (tra l’altro il preferito di papa Francesco, tanto da citarlo anche nella sua esortazione apostolica Amoris Laetitia), esso è stato girato in Danimarca sulla incontaminata costa dello Jutland Occidentale, costellata di villaggi di pescatori. E sono proprio queste immagini di un mondo semplice e remoto a conquistare lo spettatore, insieme alla chiesetta di Mårup, utilizzata in alcune scene. Numerosi i premi vinti dalla pellicola, che si segnala per misura ed eleganza.

La trama: Martina e Filippa, figlie nubili di un pastore protestante, dopo la sua morte vivono sole in uno sperduto paesino della costa norvegese, dedite ad opere di carità e ai pochi adepti della setta da lui fondata. La loro vita cambia con l’arrivo di Babette, esule dalla Francia. Anche lei è sola perché ha perso il marito e il figlio nei moti della Comune parigina. Cuoca eccezionale, in breve si fa ben volere da tutti. Passano gli anni e fra i seguaci del pastore, invecchiando, sorgono incomprensioni: la piccola comunità è in crisi. Intanto Babette riceve la notizia di aver vinto 10 mila franchi ad una lotteria. Potrebbe approfittarne per tornare a Parigi, ma lei decide altrimenti: preparerà «un vero pranzo francese» per il centenario del venerato pastore, quale segno di gratitudine verso le due anziane sorelle. Inizialmente tale proposta le lascia perplesse: temono, infatti, di veder sconvolto il loro austero stile di vita; anche gli altri invitati non pronunciano una parola durante il pranzo, ligi alla loro morale puritana. Ma la bontà del cibo è tale che alla fine tutti, appagati nel corpo e nello spirito, si abbandonano alla letizia del Vangelo: gli antichi dissapori sono superati nell’agape fraterna.

Il racconto offre spunto per diverse riflessioni. Dopo la morte di un leader carismatico, il rischio di un gruppo, di una comunità, è di aggrapparsi a formule note e di ripeterle stancamente senza seguire, pur nella fedeltà all’ispirazione originaria, gli impulsi dello Spirito che è creatività. È quanto accade ai seguaci del pastore, i quali nelle loro periodiche riunioni rievocano passati episodi relativi al fondatore, cantano inni e consumano frugali refezioni secondo un ritmo abitudinario: lo stesso che intendono riproporre anche in occasione dell’anniversario.

Nella vita monotona e ordinata di Martina e Filippa Babette rappresenta invece l’irruzione di una novità di cui beneficiano anche i poveri da loro assistiti. La sua proposta di preparare un pranzo sontuoso viene dapprima interpretata come un attentato all’ordine costituito, quasi una tentazione diabolica: destino, questo, di tanti profeti e riformatori. Ma sarà proprio la trovata di questa estranea all’ambiente protestante del villaggio norvegese, di questa “papista” (anche se nulla in lei tradisce una convinzione religiosa), a operare nella piccola comunità il “miracolo” dell’unità ricomposta: un’allusione alla trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, e quindi all’Eucaristia?

Col suo non apparire (rimane in cucina durante il pranzo, ignorata da tutti tranne dalle due sorelle che alla fine la ringrazieranno), Babette rappresenta l’amore che prende l’iniziativa senza aspettarsi un ritorno. Sbaglia però chi pensa che la sua sia solo una grande prova di fedeltà e di abnegazione. Babette è tutt’altro che una Cenerentola. In lei il servizio è vissuto con dignità se non addirittura regalità. Lei ha inteso in tal modo rimanere fedele al suo “carisma”: quell’abilità di chef che sapeva rendere felici i clienti del suo locale parigino. Per questo è «una grande artista». E «un grande artista – dichiara alle due sorelle sbigottite di sapere che ormai non possiede più nulla di suo – non è mai povero».

È così che la straniera fuggiasca che esse hanno ospitato in obbedienza al Vangelo diviene a pieno titolo parte del piccolo mondo che l’ha accolta.

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