L’anno nuovo a Santa Cecilia

Antonio Pappano

C’è sempre folla all’Accademia ceciliana e, con gioia, si scoprono ragazzi giovani e bambini. La classica, a quanto pare, tira, anche perché i prezzi sono scesi di parecchio e la buona pubblicità, in metro, nei bus, al cinema, fa la sua parte. Ha avuto coraggio il presidente Cagli a iniziare la stagione con la Missa Solemnis di Beethoven, capolavoro irto di difficoltà interpretative (è o non è liturgica? Il dibattito dura da sempre) ed esecutive da parte del coro e dei solisti.

Iniziata nel 1818 e finita nel 1823, la Messa, scritta dal compositore per festeggiare la nomina ad arcivescovo di Olmutz del suo protettore, l’arciduca Rodolfo, appare nel suo ciclopico svolgersi un monumento d’arte difficilmente raggiungibile come bellezza ed intensità. Dopo averla ascoltata, si ha la sensazione che sia non solo superiore alla Nona Sinfonia per equilibrio interno, profondità spirituale, costruzione armonica, ma a tutto ciò che è venuto dopo lo stesso Beethoven.

Perciò i direttori, fra cui Pappano che la eseguiva per la prima volta, tremano: Beethoven non è mai facile, nella Missa poi edifica qualcosa di ultraterreno di una complessità insondabile. Fra le varie parti, oltre al saldissimo Credo, ripetuto ben tre volte, spicca l’ingresso del violino solo prima del Benedictus, pagina solista di acutezza unica. Fino all’Agnus Dei così pacato nel solito tumultuoso Beethoven che vi scrisse sopra: “Preghiera per la pace interna ed esterna”.

Pappano ha vinto la sfida, insieme al quartetto di solisti, al coro (i soprani), magnificamente guidati da Norbert Balatsch, “accarezzando” la partitura con tempi “rubati”, sonorità gloriose ma non invadenti e mettendoci tanto cuore.

È poi toccato ad un elettrico Cristoph Eschenbach presentare al pubblico lo Stabat Mater del polacco Karol Szymanowski, composto nel 1926, per soli coro e orchestra. L’antica laude di Jacopone da Todi, pezzo forte di parecchi musicisti (Pergolesi, Rossini, Verdi, Dvorak…), è una moderna, molto contemporanea riflessione sul dolore. Non nega tocchi drammatici, esplosioni di ottoni ad evocare l’inferno, o sussurri monodici del coro nei passaggi dove si insiste sulle parole “pianto, piangere”.

Senza retorica, essenziale e lineare, è ispirata da cima a fondo. Direttore e solisti (l’ottimo soprano Luba Organasovà) l’hanno capito e hanno fatto commuovere così il pubblico. Che dopo tanta com-passione ha potuto “sfogarsi” con la scintillante, frenetica Ottava Sinfonia di Dvorak.

 

Classica dischi

 

Verdi, Requiem, Emi Classics. Dirige A. Pappano, con Anja Harteros, Sonia Ganassi, Rolando Villazòn, René Pape. Orchestra e coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

 

Il doppio cd è la registrazione del concerto dello scorso febbraio con un quartetto eccezionale. Pappano con Verdi è come un pesce nell’acqua, ma evita lo scoglio delle fosche tinte, specie nel Dies irae. Delicatissimi Villazòn e la Ganassi, prestigioso il coro. Da non perdere.

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