L’allegria rende santi

Compie 150 anni la grande opera iniziata da Giovanni Bosco a favore dei giovani.
L'allegria rende santi

A nove anni fece un sogno. In un grande cortile c’erano molti bambini che si divertivano, giocavano, ridevano; non pochi bestemmiavano. All’udire le bestemmie, lui si lanciò tra loro per farli tacere, gridando e anche indirizzando qualche sonoro pugno. Apparve allora un uomo anziano, dall’aspetto nobile, vestito con un manto bianco, il volto sorprendentemente luminoso. Lo chiamò per nome e gli ordinò di mettersi alla testa di quei bambini, aggiungendo: «Non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici».

Il bambino di nove anni si chiamava Giovanni di nome e Bosco di cognome. I salesiani da lui poi fondati a Torino, il 18 dicembre 1859, divennero l’attuazione di quel sogno: una schiera di persone che, sulla scia del fondatore, danno tutto per stare tra i giovani, condividendone vita, esigenze e valori.

La loro azione, tesa a coniugare evangelizzazione ed educazione, vuole creare il clima adatto per “trarre fuori” (dal latino educere, da cui “educare”) il meglio dai ragazzi, per aiutarli a consolidare atteggiamenti che li portino a saper scegliere quanto c’è di buono, sano e gioioso. «Qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri», ripeteva spesso don Bosco. Dell’allegria aveva un’opinione altissima e storceva il naso nel vedere musi lunghi e sguardi arcigni: veniva da una famiglia contadina, avvezza al duro lavoro, ma ben consapevole – prima di molti psicologi moderni – del beneficio d’una liberante risata.

 

A due anni, Giovanni era rimasto orfano del padre, così si dovette adattare a diversi lavori per poter studiare; allo stesso tempo arginando il malcontento del fratello che non apprezzava quello spreco di tempo per imparare a leggere. Ma lui aveva tanta voglia di conoscere. Intanto, mamma Margherita li tirava su con dolcezza e pazienza infinita, educandoli alla fede con un potente quanto silenzioso esempio.

Divenne poi sacerdote, Giovanni, e seguendo un altro grande torinese, don Giuseppe Cafasso, si diede anima e corpo alla cura dei giovani poveri e sbandati d’una Torino che s’avviava all’industrializzazione fra dilagante miseria morale e materiale. Si conta che a quell’epoca fossero più di sette mila i bambini torinesi sotto i dieci anni che lavoravano nelle fabbriche: molti erano sfruttati e sottopagati; migliaia vivevano per le strade; alcuni, implicati in faccende di malavita, giacevano in prigioni malsane.

Il giovane sacerdote, ricordando il sogno avuto da bambino, capì al volo che doveva mettersi a capo di quei ragazzi, per aiutarli a realizzare qualcosa di grande nella vita. Con l’aiuto dell’infaticabile mamma Margherita, nel 1846 fondò il primo oratorio nel quartiere di Valdocco. Altri ne seguirono: negli oratori i ragazzi giocavano e ricevevano anche una prima formazione professionale.

 

Il metodo educativo di don Bosco era rivoluzionario per l’epoca. Invece di minacciare o punire, egli preferiva “prevenire”: sapeva che uno sguardo di disapprovazione può essere ben più efficace d’uno schiaffo. Comprendeva che i ragazzi dovevano essere sempre impegnati, nello studio o nel gioco, per evitare le tentazioni. Aveva imparato questo fin da giovane, quando s’inventava giochi di prestigio o s’esibiva in acrobazie per attirare i bambini del suo paese alla preghiera e all’ascolto del Vangelo. Il suo singolare “sistema preventivo” si poggia, come lui diceva, su tre gambe: ragione, religione, amorevolezza.

Non mancarono le difficoltà. Perché l’azione di don Bosco a favore dei giovani lavoratori – con l’impegno a stipulare contratti d’impiego a loro favorevoli – infastidiva gli imprenditori, i loro sostenitori politici e coloro che ritenevano inaccettabili le ingerenze della Chiesa nelle questioni del lavoro e della società. Così subì minacce e aggressioni. Ma molte volte, come egli racconta, compariva un grosso cane grigio a difenderlo: la bestia metteva in fuga i malfattori per poi sparire misteriosamente com’era venuta.

Non deve quindi sorprendere che un uomo tanto concreto e attivo desse molta importanza ai segni soprannaturali. Don Bosco attribuì ai sogni le intuizioni per molte sue opere: dal primo, avuto all’età di nove anni, a quello che lo indusse a costruire, vicino al primo oratorio, la grande chiesa di Maria Ausiliatrice, così cara ai torinesi. Sulla soglia della morte, don Bosco poteva ben affermare d’aver portato a compimento quanto una volta aveva scritto ai suoi giovani: «Difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo e che più desideri la vostra vera felicità».

 

Infine, devo ammetterlo. Anch’io ho corso su e giù per i campi di calcio d’un oratorio, ogni giorno della settimana, ogni intervallo fra le lezioni. Ero allievo d’una scuola salesiana e ho beneficiato di quel clima. Ritengo inoltre d’aver avuto una fortuna singolare: lì, fra tanti degni educatori che ho incontrato, mi sono imbattuto in quella che è stata una figura essenziale nella mia vita. Un sacerdote la cui acuta intelligenza, il cui sorridente senso comune e la cui profonda spiritualità lo portavano a creare, in classe e fuori, un clima improntato all’autentica libertà. Per tutti noi, allievi, era facile capire che eravamo, proprio noi, il centro di tutta la sua opera educativa. Mi dicevo: non ho conosciuto don Bosco, ma questo don qui, dev’essere qualcosa d’assai simile. A lui devo tanto. Anche l’aver sviluppato il talento (si fa per dire!) per la scrittura. Di cui purtroppo voi, cari lettori, fate le spese.

 

Società San Francesco di Sales

I salesiani sono oggi 16.092 (10.669 sacerdoti, 2.025 coadiutori, 2.765 seminaristi, 515 novizi, 118 vescovi, dei quali 5 cardinali), presenti in 129 nazioni. Le opere salesiane comprendono attività di formazione, oratori e centri giovanili, scuole, convitti, orientazione vocazionale, parrocchie, promozione e comunicazione sociale. La Famiglia salesiana, composta da circa 400 mila membri, consiste in 26 organizzazioni ispirate dal carisma di don Bosco.

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