La staccionata del mio vicino

Un rapporto difficile, teso con un vicino di casa. Un tentativo fallito – almeno in apparenza – di riconciliazione. La vicenda di Andreu.
Animali

Era ormai tempo di portare Spark fuori per la sua passeggiatina. Come ogni giorno, lui già lo sapeva e già uggiolava di impazienza. Con uno strappo deciso alla catena, il suo musetto era teso nella pregustazione di quella prima corsa mattutina giù lungo la collina.

Il mio vicino, il signor Pennini, stava ispezionando l’aiuola di cinta del suo giardino, incerto se fosse il caso di livellarne le cime. Mi parve che mi stesse guardando con la coda dei suoi occhi di ghiaccio, ma sarebbe stato difficile esserne sicuri. Perché, vedete, il signor Pennini ed io non ci parliamo.

Feci scivolare il guinzaglio nell’anello del collare di Spark e lo liberai dalla catena che lo teneva legato al canile. Ero preparato ad affrontare il primo generoso scoppio delle sue energie che avrebbero trascinato entrambi per almeno due isolati. Poi avremmo raggiunto la strada in pianura e il gran fiatone mi avrebbe costretto a reagire trattenendo con tutte le mie forze il guinzaglio. Ancora qualche strappo violento, ed avremmo raggiunto un compromesso onorevole: una camminata a passo veloce.

Il programma di Spark comprendeva un sopralluogo ai piccoli sempreverdi del signor Valsecchi, un tentativo disperato in direzione della residenza di un certo bulldog, la ricerca con scavo di qualche improbabile roditore sotto le aiuole. Era un programma che ben conoscevamo ambedue. 

Avevamo quasi terminato il giro completo di due isolati, e solo qualche siepe restava tra noi e la casa.

 

Fu a questo punto che il mio cuore e quello di Spark si divisero. Egli, nella sua sensibilità canina, cominciò a pregustare la lunga sorsata di acqua fresca dal secchio in cucina. Io invece a tremare al pensiero di quell’ultima casa in fondo alla strada, la casa di qualcuno che una volta era stato mio amico. Dico “una volta”, perché una cortina di ferro era scesa tra me e il mio vicino di casa. Ripensai ai tempi, non lontani, in cui lui passava volentieri da me a far due chiacchiere. Mi sembrava fossero trascorsi anni-luce da quando mi aveva aiutato a sistemare la staccionata e a sistemare il triciclo di mia figlia Anka.

La nostra amicizia aveva cominciato ad incrinarsi quando per la prima volta lo intesi fare, non visto, dei commenti poco benevoli «sugli stranieri venuti ad abitare nei dintorni». Il riferimento – non troppo velato – era diretto evidentemente a me, cittadino rumeno da dieci anni in Italia. A niente serviva che io fossi un piccolo imprenditore che pagava regolarmente le tasse, dando anche lavoro a tre giovani italiani. O quando, parlando con coloro che ci avevano venduto la casa, ci aveva definiti «vicini poco graditi».

Un giorno decisi di affrontare con lui apertamente la questione, chiedergli come mai fosse successo quell’improvviso voltafaccia. Ne aveva dato uno stupido pretesto, e poi aveva sempre negato di essere arrabbiato. Di fatto, non lo trovavo mai quando passavo davanti alla sua porta. Se ci incontravamo per strada, o al supermercato, ci comportavamo da estranei. Quante volte mia moglie ed io avevamo cercato ansiosamente nei nostri cuori il motivo di quell’improvvisa e così profonda ostilità, in qual modo lo avessimo offeso…

 

Ed ora Spark ed io eravamo proprio davanti alla staccionata del signor Pennini. Era aperta. Raggiunsi il portico con i suoi difficili scalini e con l’ancor più difficile padrone. Il silenzio era surreale, sentivo solo il battito concitato del mio cuore e una sensazione simile a quella di chi, in mezzo a una tormenta, bussa alla porta di un rifugio e non riceve risposta, pur avvertendo all’interno di quel luogo silenzioso una presenza viva.

Ci trovavamo di nuovo faccia a faccia. I suoi occhi erano abbassati e sfuggivano i miei. Stavo per andarmene, ma con tutto me stesso sfoggiai il migliore dei sorrisi e pronunciando con voce ferma le parole: «Buona sera, signor Pennini!».

La sua durezza non accennò ad ammorbidirsi. Forse i suoi occhi si inumidirono un poco, ma furono ben presto di nuovo di ghiaccio. Il saluto non mi venne reso e mi sentii attraversare da un brivido.

C’è stato un tempo in cui un dolore come questo mi avrebbe solo urtato. Ora era diverso. Nel mio intimo avvertii che quell’attimo di sofferenza era prezioso davanti a Dio, ed era il mio contributo alla costruzione di un’Italia – la nuova patria dove mi trovo a vivere, e nelle cui scuole accompagno ogni giorno i miei figli – più unita e solidale.

Andreu

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons