La sfida della fraternità

Da Haiti alla comunità politica mondiale
Congresso internazionale "Le vie della fraternità" - Haiti

Autorità Civili e Religiose,

Signore e Signori,

                            la relazione che sottopongo alla Vostra attenzione prende in considerazione il concetto di fraternità in un modo non abituale agli studiosi e agli operatori della politica: cercherò infatti di affrontare il tema della fraternità intesa come categoria politica. Non oserei intraprendere questo tentativo se potessi contare soltanto sulle mie forze. Si sta però sviluppando oggi, in numerosi Paesi del mondo, una corrente di pensiero e di azione che fa della riscoperta della fraternità il cardine di una nuova visione della società e della politica.

Non si tratta certo di un nuovo partito, poiché comprende al proprio interno personalità politiche, funzionari, diplomatici, studiosi, studenti, cittadini, di diversi orientamenti culturali e politici, di diverse razze e religioni.

E’ un movimento nascente, ma che già può contare su esperienze significative, chiamato Movimento dell’unità, che sorge dal “carisma dell’unità” del Movimento dei Focolari, una realtà ecclesiale fondata da Chiara Lubich, e oggi diffusa in 182 Paesi del mondo. L’origine spirituale del Movimento dell’unità è dunque ecclesiale, ma si rivolge a tutti, e tutti possono farne parte, perché ogni uomo può scoprire nella propria interiorità questa fondamentale appartenenza alla comunità umana che prende il nome di fraternità, e ad essa può attingere per orientare la propria esistenza. Il carisma dell’unità è dunque un dono, che non viene trattenuto gelosamente da chi lo ha ricevuto, ma viene trasmesso all’umanità cui appartiene.

Il mio compito, oggi, è dunque di mettere a Vostra disposizione alcune riflessioni che appartengono a quella che potremmo chiamare “dottrina della fraternità”, per comunicare ciò che già è stato elaborato, ma per offrire anche l’opportunità agli amici haitiani di contribuire a questa dottrina nascente.

 

 La fraternità non è un semplice sentimento, e neppure la mera descrizione del fatto, naturale, di essere figli della stessa madre. Lo testimonia l’uso che di questo concetto hanno fatto già gli antichi. Agli inizi della civiltà ebraica, ad esempio, nel libro della Genesi, troviamo descritta una impossibilità di convivere, che si trasforma in fratricidio. E proprio il primo fratricida, Caino, fu anche il primo che fondò una città, Enoch: la Bibbia, in tal modo, stabilisce un legame originario tra il fratricidio – la fraternità negata – e la prima forma di organizzazione politica.

Nell’area indoeuropea è possibile trovare traccia del concetto di fraternità, usato politicamente, già nell’epoca del Tardo Bronzo, ad esempio nella corrispondenza diplomatica tra il re di Amurru e quello di Ugarit, o nel trattato tra l’ittita Hattushili III e l’egizio Ramses II.

Si potrebbe dunque risalire molto indietro nell’analisi, ma poiché vogliamo parlare di noi e di oggi in modo più diretto, ci concentriamo sulla questione della fraternità nella nostra epoca politica, lasciando alle lezioni della scuola “Toussaint Louverture” il vero e proprio approfondimento culturale.

 

Scegliamo, come punto di partenza per il nostro esame, quel vero e proprio spartiacque della storia che fu la Rivoluzione francese. Nella lettura che i posteri ne hanno dato, la rivoluzione fu sintetizzata nella celebre devise: “libertà, uguaglianza, fraternità”. Questi tre principi hanno avuto destini diversi: mentre la libertà e l’uguaglianza si sono sviluppate in vere e proprie categorie politiche, e negli ultimi due secoli abbiamo assistito all’azione storica di movimenti politici che si sono richiamati a tali principi, non così è stato per la fraternità, che appare pressoché dimenticata.

Questo fatto porta con sé gravi conseguenze, perché i tre principi stanno in equilibrio tra di loro, e l’assenza di uno dei tre condiziona pesantemente la realizzazione degli altri. In particolare, nel mondo contemporaneo la fraternità è stata sostituita, spesso, con la forza. Ma la forza, quando interagisce con la libertà e l’uguaglianza, provoca effetti molto diversi da quelli portati dalla fraternità. Se la libertà, ad esempio, diventa la libertà di imporre la legge del più forte, chi non è forte, non è nemmeno libero. L’uguaglianza, da parte sua, viene spesso, nei fatti, riconosciuta solo a chi è abbastanza forte da far rispettare i propri diritti, o da riuscire a portare i propri prodotti nel mercato, o da imporre la propria volontà nel contesto internazionale; da questo punto di vista, chi non è forte, non è nemmeno uguale.

Proviamo ad applicare queste considerazioni al caso di Haiti e di molti Stati di piccole dimensioni, o di scarso peso economico: se libertà e uguaglianza vengono riconosciute solo sulla base della forza, allora Haiti, e molti altri Stati, non possono essere né liberi né uguali.

 

Ma questo problema è solo di Haiti? Certamente no. E’ l’intero pianeta che oggi si trova davanti alle conseguenze drammatiche di una libertà e di una uguaglianza deformate dall’abbandono della fraternità e dal peso della forza.

Torniamo, per fare un esempio, alla drammatica situazione creatasi con gli attentati a New York e a Washington l’11 settembre del 2001.

Attraverso questi attentati gli Stati Uniti hanno sperimentato la condizione del debole. Per la prima volta sono stati colpiti al cuore da un nemico esterno. E’ un’esperienza nuova, che li avvicina a quei popoli che già hanno conosciuto l’impotenza, o che vivono costantemente in essa. Insieme alle Torri è caduta la convinzione di onnipotenza: oggi sappiamo che nessuno Stato può diventare abbastanza forte da impedire a qualcun altro di colpirlo al cuore. La debolezza dello Stato più forte del mondo ha mostrato la fragilità della forza, la sua incapacità di garantire, da sola, la sicurezza.

Ma da dove viene questa debolezza? Partiamo da una frase, pronunciata all’indomani dell’attentato dal presidente Bush, ma che molti hanno condiviso: “Odiano la nostra libertà, e l’hanno usata per colpirci”. Questa la costatazione amara che percorse la Federazione all’indomani degli attacchi.

E’ una affermazione vera; ma la libertà ha molte facce. Da una parte, si tratta di una libertà sacra, legata alla nascita di questa nazione, sorta in gran parte da coloro che fuggivano le tirannie e le intolleranze del vecchio continente europeo e dai tanti che, semplicemente, scappavano dalla fame e cercavano, con la libertà, il pane. Da quando è sorta, questa nazione ha dato libertà e pane a tutti quelli che hanno voluto “diventare americani”: senza regalare niente, ma aprendo la possibilità a tutto.

La libertà statunitense non fu pensata però, dai fondatori, come un valore assoluto. Leggiamo alcune frasi della Dichiarazione di indipendenza del 1776: “Noi ricordiamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità. Che allo scopo di garantire questi diritti, sono stati creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”[1].

La libertà statunitense, dunque, non poggia soltanto su se stessa, ma su una volontà di Dio, che vuole gli uomini liberi: e ciò significa che di questa libertà gli uomini non possono essere padroni assoluti, perché non la hanno soltanto costruita, ma anche ricevuta, e devono renderne conto. Inoltre, è una libertà che poggia sull’unità della comunità: e ciò significa che è veramente libero colui che vive tale libertà insieme agli altri: è la comunità che garantisce la libertà.

Questo secondo aspetto è particolarmente sottolineato nei documenti delle origini dello “esperimento americano”. Il “Mayflower Compact”, l’accordo che i Pellegrini sottoscrissero, l’11 novembre 1620, prima di sbarcare nella Nuova Terra, testimonia l’originaria cultura comunitaria e pattizia che ha dato l’impronta agli Stati Uniti: “… alla presenza di Dio e l’uno dell’altro, stringiamo un solenne patto reciproco e solennemente ci accordiamo di costruire una civile Società Politica per il miglior ordinamento e la migliore conservazione della nostra comunità e per il perseguimento dei Fini anzidetti…”[2].

Non è stato un idillio. L’idea di libertà si è sviluppata attraverso conquiste progressive. Dalla cittadinanza erano esclusi, all’inizio, i neri, le donne, i nativi americani (i primi padroni di questa terra): la libertà si comprende sempre di più attraverso il tempo e le esperienze. Oggi possiamo costatare che questa libertà è stata spesso, e sotto aspetti importanti, tradita, perché vissuta in maniera tale da portare danni agli altri: sia all’interno degli Usa, dove i cittadini considerati nella fascia della povertà sono oggi oltre 30 milioni, sia all’esterno, dove, accanto a numerosi Paesi ai quali gli Usa hanno garantito e conquistato la libertà, ce sono altri che vengono tenuti sotto un tallone di ferro politico o economico. Ancora, la libertà è diventata spesso arbitrio e licenza incontrollata, sul piano delle scelte morali, personali e collettive.

Analogamente alla libertà, anche l’unità si comprende sempre più attraverso il tempo e le esperienze. Agli inizi degli Stati Uniti, la scelta federale, l’obiettivo di mantenere e sviluppare la compattezza dell’Unione, è stata una scelta di unità che ha creato un modello. Non invano vi insisteva George Washington, al momento di ritirarsi dalla politica, nel suo Messaggio di commiato: “L’unità del Governo che fa di voi un popolo solo vi è anch’essa ormai cara. E ciò è giusto, in quanto quest’unità è la pietra angolare dell’edificio della vostra effettiva indipendenza, il sostegno della vostra tranquillità all’interno e della pace all’esterno, della vostra sicurezza, della vostra prosperità, di quella stessa libertà cui attribuite un così grande valore”[3].

Ma all’interno degli Stati Uniti la situazione è profondamente cambiata dai tempi di Washington: l’uguaglianza di religione e cultura, cui il generale fa riferimento, non esiste più, proprio grazie al processo di inclusione nella sfera dei diritti delle tante diversità che esistevano già ai tempi di Washington, e che non erano riconosciute; e anche per l’arrivo continuo di nuove diversità, che fanno degli Stati Uniti un Paese unico al mondo.

E, soprattutto, si è eroso, in notevole misura, il vincolo comunitario di origine. Non è un fatto nuovo. Robert N. Bellah lo segnalava già negli anni Settanta, meditando sulla crisi culturale e di fiducia nelle istituzioni che aveva pervaso gli States. Secondo Bellah, l’individualismo utilitaristico ha prevalso sulla libertà responsabile, e ha generato divisioni e frammentazione sociale[4].

Anche la riflessione politica statunitense si è confrontata col problema dell’unità della Nazione, soprattutto negli ultimi trent’anni: “Come può svilupparsi – si chiede Michael Walzer – una comune cittadinanza senza qualche cosa di comune – senza solidarietà etnica, senza una religione stabilita, senza una tradizione culturale unificata?”[5].

Questa dunque è la domanda: dove possiamo cercare oggi un nuovo vincolo di unità, che ricostruisca le condizioni ottimali della libertà e della sicurezza?

Una domanda pesante. Alla quale però, dopo gli attentati dell’11 settembre, possiamo forse cominciare a rispondere. Negli Usa, infatti, è sorta una nuova corrente di fraternità, in chi ha donato il sangue, in chi ha scavato, in chi ha ascoltato e consolato, in chi prega, dialoga, progetta sulla base di una fraternità ormai sperimentata e, prima, sconosciuta. E’ lo spirito della vera America, da sempre vivo nelle piccole comunità, che dopo gli attentati ha ricevuto nuovo sviluppo anche nella megalopoli di New York. E’ una luce sulla vocazione degli Stati Uniti, che propone in una nuova forma la “nuova frontiera” da conquistare: la fraternità. Senza di essa la libertà si corrompe, diventa libertà solo per il più forte, che non tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni sugli altri. E’ attraverso la fraternità che gli Usa – e non solo loro – possono conquistare la vera libertà.

Gli avvenimenti di quei giorni sembrano dunque dare un’importante conferma a quanto sostiene Chiara Lubich, colei che ha introdotto la riflessione sulla fraternità nell’attuale contesto culturale e politico: “Per la fraternità acquistano significati nuovi e potranno venire più pienamente raggiunte anche la libertà e l’uguaglianza”[6]. Senza la gamba della fraternità la politica non può fare strada: anche le sue conquiste di libertà rimangono fragili e continuamente a rischio; e l’unità, se intesa come il trincerarsi difensivo all’interno dei propri confini, o come lo svilupparsi della forza nazionale senza tenere conto delle esigenze degli altri popoli, diventa causa di nuovi conflitti. L’attacco alle Torri gemelle costringe a ripensare la politica dalle fondamenta, e non solo quella degli Usa, alla luce della fraternità.

E a pensare, con urgenza, a una vera e propria “strategia della fraternità” che ripari le ingiustizie presenti nel mondo e favorisca lo sviluppo. Perché l’attacco alle Twin Towers ha mostrato al mondo non solo l’estremismo dei terroristi, ma anche l’esistenza di una crisi mondiale. Le ingiustizie presenti nel mondo non determinano e non giustificano il terrorismo, che dipende da particolari ideologie e da scelte personali. Ma il terrorismo attinge i propri adepti anche tra chi è colpito dall’esistenza di ingiustizie: combattere i terroristi lasciando inalterate le condizioni nelle quali si sviluppano è un modo di vedere limitato.

Se ai tempi di George Washington, infatti, si poteva intendere l’unità come una certa uniformità culturale, e la libertà come la sfera lasciata alle decisioni dei singoli, oggi entrambe devono essere ripensate: l’unità di un Paese e di un popolo, pur necessaria, non è più sufficiente, ma deve sapersi aprire all’unità del mondo; e la libertà non riguarda più soltanto i singoli, ma intere comunità, diverse per cultura e religione, che ormai, anche per effetto della globalizzazione, vivono all’interno dei singoli Stati, e riguarda il diritto di espressione di tutte le diverse culture e religioni, del pluralismo delle identità e degli interessi dei popoli.

 

Queste considerazioni impongono alla cultura e alle decisioni politiche di oggi la necessità della fraternità. Ma c’è qualcuno che può proporsi, oggi, come maestro di fraternità politica? Siamo appena agli inizi. Tutti i Paesi, da questo punto di vista di vista, sono sullo stesso piano.

La stessa riflessione dottrinale è fortemente in ritardo. Faccio due esempi. Una studentessa, recentemente, mi ha inviato la sua tesi di laurea. Due anni fa, quando doveva cominciarla, andò dal suo professore e gli disse: “Vorrei partire dai tre grandi principi della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fraternità, e studiare il rapporto tra le dottrine politiche che si sono sviluppate da ciascuno di essi”. “Va bene, rispose il professore, ma devi limitarti alla libertà e all’uguaglianza, perché la fraternità non è una categoria politica”.

Il secondo esempio. Alcune settimane fa ho partecipato ad una conferenza, insieme ad altri due esperti. Gli organizzatori avevano chiesto a me di scegliere l’argomento generale dell’incontro ed io avevo scelto, appunto, la fraternità. Gli altri due professori, quando sono venuti alla conferenza, mi hanno detto che avevano cercato nei dizionari di politica senza trovarla, che avevano parlato con altri studiosi senza avere risposta: la fraternità non appartiene al linguaggio politico ordinario, su di essa non esiste bibliografia, e non sapevano che cosa dire.

 

Qual è la causa di questa assenza? Perché il pensiero e l’azione politici hanno rimosso la fraternità dal loro orizzonte?

Per cercare di rispondere a questa domanda vorrei sottoporre alla Vostra attenzione un’altra considerazione. L’assenza della fraternità negli ultimi due secoli di politica non è l’unica. C’è un’altra grande assenza nei libri di storia di tutto l’Occidente: l’assenza di Haiti. Forse queste due assenze sono collegate fra di loro? E che legame esiste, allora, fra la vicenda di Haiti e quella della fraternità?

L’importanza storica di Haiti è presto detta. Non la dico per Voi, che l’avete vissuta, ma per tutti i non haitiani che leggeranno o ascolteranno questo discorso.

Nel 1791 gli schiavi neri di Haiti si ribellarono, e attraverso una lunga lotta arrivarono alla proclamazione di una repubblica indipendente, nel 1804. Haiti fu la prima Repubblica Nera. Gli haitiani realizzarono quello che Michel-Rolph Trouillot ha chiamato “l’impensabile”[7], ciò che la cultura europea non poteva ammettere neppure in teoria: mezzo milione di schiavi si ribella, combatte per 14 anni districandosi militarmente e politicamente attraverso tre grandi potenze europee, arrivando addirittura a sconfiggere il corpo di spedizione mandato da Napoleone, decide di diventare un popolo e riesce a creare un proprio Stato indipendente.

Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, bandiera della rivoluzione francese, nel 1789 aveva proclamato: “Tutti gli uomini nascono liberi ed uguali per la legge”. La rivoluzione haitiana dà un effettivo contenuto al “tutti”, mettendovi dentro anche i neri. Perché i rivoluzionari francesi non la riconoscono?

Come Voi sapete c’è, anzitutto, un motivo economico. La tratta dei neri e l’economia schiavista nelle colonie era diventata, nel corso del Settecento, una delle basi fondamentali dell’economia francese e continuò ad esserlo anche durante la rivoluzione. Nel fatidico 1789 nei porti dell’isola arrivano 1578 navi mercantili. La colonia rappresenta i due terzi degli interessi commerciali della Francia. E proprio questa classe di mercanti, la cosiddetta “borghesia marittima” nella quale i negrieri hanno un ruolo di punta, arriva al potere nel 1789, attraverso la rivoluzione nelle varie città francesi, e i suoi rappresentanti ne sono tra i protagonisti anche a Parigi. I mercanti combattono il dispotismo monarchico e feudale, ma non mettono in questione il dispotismo che essi esercitano sulle colonie.

L’Assemblea di Parigi, nel corso del dibattito, si divide pro o contro i proprietari neri, ma, come osserva R. A. Plumelle-Uribe, “nessuno dubita della necessità di perpetuare la schiavitù poiché il dibattito si situa al livello dei mezzi più efficaci per garantire la sua continuità”[8]

E’ il periodo, questo, durante il quale accade un fatto di grande importanza per il nostro discorso: nel maggio del 1791 il marchese de Girardin pronuncia il suo celebre discorso al Club dei Cordiglieri, pubblicando il quale viene proposto, per la prima volta, il motto “Libertà, uguaglianza, fraternità” che diventerà – per i posteri – la bandiera della rivoluzione.

 

Ma non ci sono soltanto motivi di interesse economico a far sì che i rivoluzionari francesi possano – paradossalmente – aderire al motto “libertà, uguaglianza, fraternità” pur rimanendo schiavisti: c’è anche una componente culturale. Perfino coloro – e sono una minoranza – che vogliono abolire la schiavitù, credono infatti quasi tutti nell’inferiorità naturale dei popoli africani.

Molti intellettuali haitiani contemporanei sottolineano la specificità della loro rivoluzione, che ha introdotto una reale universalità nei principi della rivoluzione francese; universalità che il 1789 non ha avuto, perché guardava all’umanità generalizzando un modello particolare di uomo, quello europeo: “Il modello culturale occidentale – sottolinea Laënnec Hurbon – si nasconde dunque dietro l’universalismo della Rivoluzione francese. Si comprende così perché il diritto dei popoli e delle culture doveva essere rigorosamente assente dalle preoccupazioni della Rivoluzione francese”[9].

Ma c’era anche chi, come l’abate Grégoire – considerato il più convinto sostenitore della liberazione degli schiavi – interpretava in modo effettivamente universale i principi della rivoluzione francese. Egli accomunava bianchi e neri, senza alcuna distinzione di qualità tra l’umanità degli uni e degli altri. E denunciava tutti coloro che “hanno tentato di snaturare i libri santi, per trovarvi l’apologia della schiavitù coloniale”; al contrario, per lui nella Bibbia si trova il fondamento della fraternità universale, basata sull’essere tutti figli del Padre celeste: “tutti i mortali si connettono, attraverso la loro origine, alla stessa famiglia. La religione non ammette tra loro alcuna differenza”[10].

E’ dunque recuperando la fraternità su base biblica, e confutando l’uso ideologico che della Bibbia veniva fatto dai sostenitori della schiavitù, che Henri Grégoire comincia a superare i confini che la rivoluzione francese aveva dato ai suoi stessi principi. Certamente, ciò non basta, perché lo stesso abate Grégoire non riesce a riconoscere e ad accettare le diversità culturali; l’universalità dei diritti consiste, per lui, nell’estendere a tutto il mondo la prospettiva e i contenuti della rivoluzione francese. I neri, a suo avviso, hanno bisogno di venire educati e introdotti alla civiltà della rivoluzione.

Haiti è la testimonianza vivente che la libertà e l’uguaglianza, senza questa fraternità, si possono rovesciare nel loro contrario, e che solo la fraternità permette di raggiungere l’umano: “Toussaint Louverture e i suoi – scrive Louis Sala-Molins – danno, per la prima volta nella pratica storica, se non nel concetto, all’universalismo il suo senso pieno perché danno al ‘genere umano’ l’estensione che gli conviene: non più schiavitù da nessuna parte”[11].

 

Toussaint Louverture lanciò un appello, il 20 agosto 1793, agli schiavi delle piantagioni del Nord di Haiti: “Campo Turel, 20 agosto 1793: Fratelli e amici, io sono Toussaint Louverture, il mio nome si è forse atto conoscere fino a voi. Ho intrapreso la vendetta. Io voglio che la libertà e l’uguaglianza regnino a Santo Domingo. Lavoro per farli esistere. Unitevi a noi, fratelli, e combattete con noi per la stessa causa”.

Toussaint vuole lottare per la libertà e l’uguaglianza, ma ha capito che soltanto attraverso la fraternità queste possono essere raggiunte e mantenute. Certamente è ancora una “fraternità di guerra”, una fraternità limitata agli insorti, giocata contro un nemico, non ancora universale: ma il suo principio è chiaramente enunciato, il suo ruolo è chiaramente intuito.

Il caso di Haiti mostra in maniera esemplare il ruolo che spesso la fraternità ha avuto nella nascita degli Stati, quando la libertà e l’uguaglianza ancora non esistono, e i combattenti lottano senza misurare i sacrifici dell’uno e dell’altro, sono pronti anzi a dare la propria vita, e tutta intera la loro causa dipende dalla loro fraternità. La fraternità dunque fonda gli Stati; anche se poi, raggiunta una condizione di normalità, stabilito un assetto istituzionale e legale, molto spesso ce ne dimentichiamo. E’ allora che anche la libertà e l’uguaglianza possono entrare in crisi.

Haiti è assente dai libri dell’Occidente perché la fraternità vi è assente; rimettere in luce Haiti significa lanciare una sfida, perché Haiti apre, all’inizio dell’epoca contemporanea, il grande tema della fraternità, quello che gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 hanno riproposto come il tema politico del nostro tempo.

 

Haiti ha subito nella propria carne non solo l’egoismo degli interessi economici, ma anche la ristrettezza e la povertà di una cultura illuminista europea che si basava su un’idea di uomo nella quale l’uomo concreto non può riconoscersi, una cultura caratterizzata da una insufficienza antropologica che non riusciva a comprendere la grandezza dell’uomo.

Vorrei concludere, allora, sottolineando che l’illuminismo non dice tutto l’Occidente; che, anzi, l’Occidente ha ben più da offrire alla riflessione sull’uomo. E sottopongo alla Vostra attenzione un’altra antropologia, un’altra figura di uomo, che forse può aprirci la strada a una più profonda comprensione di ciò che noi, oggi, siamo.

E’ l’uomo come Gesù ce lo presenta col suo esempio. Gesù, guardato non nei momenti di gloria umana, non quando compiva miracoli e trascinava le folle, ma quando, al culmine della sua passione, rimane da solo, respinto dalla terra ed estraneo al cielo, al punto da gridare: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù ha perduto, ormai, ogni legame, è sciolto da ogni vincolo. Non avverte più, neppure, il legame intimo con il Padre, tanto che dalla sua bocca non esce piùla parola “Padre”, ma “Dio”: Gesù non sente più se stesso come il Figlio, per poter così raggiungere ogni uomo, nella sua condizione di nullità, di abbandono, di lontananza da Dio.

Non tutti gli uomini si possono rivolgere a Dio, perché non tutti hanno la fede. Ma ogni uomo si può riconoscere in Gesù Abbandonato: chi, fra noi, non si è mai sentito abbandonato, incompreso, tradito, umiliato, ferito? Gesù abbandonato, col suo grido, dà voce a ciascuno di noi; e in tal modo ci rivela la grandezza infinita dell’uomo che, ridotto a niente, nel punto più basso della propria esistenza, in Gesù può alzare la testa e chiedere il perché, lo scopo del proprio abbandono. Gesù abbandonato mostra come l’infinitamente piccolo possa rivolgersi all’Infinitamente Grande e interrogarlo: la domanda di Gesù non è ribellione, ma un atto di radicale fedeltà, perché continua ad avere la certezza che Dio sappia e custodisca il significato della tragedia che egli sta vivendo, e della quale Gli chiede lo scopo.

Raccogliendo tutto se stesso, nell’ultima decisione della sua esistenza terrena, Gesù abbandonato non attende la risposta dal Padre, ma a Lui si riabbandona, ricomponendo l’unità; e con questo atto riconduce gli uomini, che aveva raggiunto nella loro lontananza, all’unità con Dio,li porta con sé. Gesù ha “perduto” il suo essere Figlio perché noi diventassimo figli di Dio e, con questo, fratelli fra di noi. La fraternità è il vincolo che ci viene donato dopo essere stati sciolti da tutti gli altri vincoli di sottomissione, di paura, di schiavitù. Ed è la fraternità a renderci liberi ed uguali. Si può non credere in Dio: ma si deve prendere atto che, nella storia umana, è con Gesù che viene introdotta la categoria della fraternità, che spiega come gli uomini, prima di appartenere ad una razza, ad una cultura, ad un popolo, sono fratelli: la comunità umana è la prima comunità, quella che rende possibili tutte le altre, e la fraternità è il legame che la definisce.

 

Se ciascuno di noi, se una persona, può guardare a Gesù abbandonato e vedervi la spiegazione della propria vicenda, l’interpretazione del proprio dolore, perché non pensare che anche un popolo possa essere unito da un singolare legame con Lui?

E’ Gesù a generare la fraternità fra gli uomini, a rivelarne l’idea. Ma, come abbiamo visto nel caso della libertà, è attraverso l’esperienza storica che gli uomini comprendono i contenuti dei valori, e scoprono i tesori che la loro natura umana contiene, ciò che Dio vi ha messo. E’ nella storia che Gesù abbandonato deve generare la fraternità, vivendo le vicende delle persone e dei popoli. Da questo punto di vista, allora, forse possiamo capire qualche cosa della vocazione e del compito storico di Haiti.

Haiti ha vissuto il proprio abbandono. E come l’Abbandonato, era nulla: è passata attraverso la prigionia e l’umiliazione. In nome della fraternità è diventata un popolo. Ma questa sua decisione è stata avversata e combattuta, non solo dall’esterno, ma anche dall’interno, negli haitiani, per la difficoltà di comprendere se stessi, di consegnarsi con piena fiducia alla propria missione storica. Forse Haiti è un Gesù abbandonato vivo, oggi, che ha il compito di indicare la fraternità come orizzonte del terzo millennio. Questo, certamente, non lo posso dire io: solo il popolo haitiano può riconoscere la propria vocazione. Ma se è questa, allora è giunto il momento, per Haiti, di rialzare la testa, di scegliere, come ha fatto l’Abbandonato, la fedeltà al proprio disegno e alla propria vocazione, anche quando i momenti sono oscuri.   

 Haiti, allora, non deve guardare soltanto a ciò che non ha, alle difficoltà interne e internazionali. Haiti, mi sembra, deve guardare non a ciò che può ricevere, ma a ciò che può dare, al suo compito, alla sua vocazione di maestra di fraternità.

Per insegnare la fraternità, però, bisogna viverla, perché solo vivendola la si comprende: a questo serve la scuola che oggi inauguriamo, scuola di pensiero ma, soprattutto, scuola di vita, dove, attraverso la fraternità vissuta, si formeranno giovani che credono nell’unità dell’umanità e nel proprio Paese; una scuola intitolata a Toussaint Louverture, a colui che ha chiamato il proprio popolo alla rivoluzione usando la parola del futuro: “Fratelli”.

Anche oggi gli haitiani possono rispondere all’appello di Toussaint e cominciare a vivere la fraternità nelle relazioni personali, sociali, economiche, politiche. Non importa se la libertà e l’uguaglianza non sono ancora pienamente disponibili: è a partire dalla fraternità che si costruisce un Paese. E la fraternità porterà libertà e uguaglianza.

Nel 2004 ricorrerà il bicentenario della proclamazione dell’indipendenza. Questa data dovrebbe diventare occasione di riflessione non solo per gli haitiani, ma per tutto il mondo. Dobbiamo mettere l’opinione pubblica mondiale in condizione di capire ciò che è successo, di interrogarsi, attraverso il dramma di Haiti, sul significato che abbiamo dato all’intera epoca uscita dalla Rivoluzione francese, di rendersi conto che la questione haitiana è anche la questione dell’Occidente, di cominciare a porsi esplicitamente il problema di una trasformazione della politica mondiale.

Termino raccontandovi un piccolo episodio. Due settimane fa, all’università Gregoriana di Roma, mi ha avvicinato uno studente, e mi chiesto di fare con me la sua tesi di dottorato. “Va bene”, gli ho risposto: “Su quale argomento vorresti farla?”. E lui: “Sulla fraternità come categoria politica”. Questo giovane studente è un haitiano.

 

Autorità civili e religiose,

Signore e Signori,

                            ho concluso la mia riflessione. Ringrazio tutti per avermi ascoltato.



[1] Document Illustrative of the Formation of the Union of the Unites States of America, Washington, 1927, p. 22; tr. it.La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti. Vol. I (1606-1776), Nistri-Lischi, Pisa 1961, p.416.

[2] Poore B. P. (ed.), The Federal and State Constitutions, Colonial Charters, and Organic Laws of the United States, Washington, Government Printing Office, 1877 (Parte II, 1889-92); tr. it. La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti. Vol. I (1606-1776), Nistri-Lischi, Pisa 1961,p. 70.

[3]Richardson J. D., Messages and Papers of the President, Washington 1896; tr. it. La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti. Vol. II (1776-1796), Nistri-Lischi, Pisa 1961, p.508.

[4] Bellah N. R., Il nuovo senso religioso e la crisi del moderno, in Vecchi e nuovi dèi. Studi e riflessioni sul senso religioso dei nostri tempi. Dagli atti del Secondo Simposio Internazionale sulla Credenza organizzato dalla “Fondazione Giovanni Agnelli” (Vienna, 7-11 gennaio 1975), a c. di R. Caporale, Editoriale Valentino, Torino 1976, p. 502.

[5] Walzer M., Civiltà e virtù civiche nell’America contemporanea, in Che cosa significa essere americani?, Marsilio, Venezia 1992, p. 9 ( prima pubblicazione in “Social Research”, XLI, 4, 1974).

[6] Lubich C., Per una politica di comunione, Palazzo San Macuto, Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma, 15 dicembre 2000.

[7] M.-R. Trouillot, Penser l’impensable : la Révolution haïtienne et les horizons intellectuels de l’Occident, in AA. VV., La Révolution francaise et Haïti, I, Henri Deschamps, Port au Prince, 1995, pp. 399-416.

[8]R. A. Plumelle-Uribe, L’ésclavage et la traite négriere dans la Révolution francaise, in AA. VV., La Révolution française et Haïti, I, Henri Deschamps, Port au Prince, 1995, p. 38.

[9] L. Hurbon, op.cit., p. 82

[10] Abbé Grégoire, De la littérature des Nègres ou Recherches sur leurs facultés intellectuelles, leurs qualités morales et leur littérature; suivies de Notices sur la vie et les ouvrages des Nègres qui se sont distingués dans les Sciences les Lettres et les Arts, Maradan, Paris, 1808.

[11] L. Sala-Molins, op. cit., p.17

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