La regina di Donizetti
Nell’ultima scena, dopo un coro dolente, Anna Bolena, che sta per morire, rievoca l’infanzia perduta (“Al dolce guidami/castel natio”) con la nostalgia del corno inglese. Si riscuote per salutare i parenti condannati. Prega con una melodia soprannaturale, realmente spirituale. E chiude con una cabaletta impetuosa (“Coppia iniqua”), dove perdona e spira. È la conclusione tipicamente donizettiana, tra pietà, supplica e impeto, delle eroine dei Tudor (Anna Bolena, Maria Stuarda, Roberto Devereux), ossia delle donne grandi nell’errore e nell’amore, con cui il musicista canta la vulnerabilità “forte” dell’animo femminile. Donne romantiche, che Donizetti – e Bellini con lui – ama con passione, in quegli anni Trenta dell’Ottocento, dove la voce, dalle sonorità astrali di Rossini, scende a farsi lamento d’amore in un’intensità unica nella storia del melodramma.
Orchestra e coro non sono semplici commentatori. Donizetti usa archi, legni e ottoni – i corni! – con aderenza sentimentale e drammatica squisita, così che il dolore si può sempre trascendere in luce. A Trieste, Anna era Cinzia Forte, cantante-attrice di valore, pur con qualche asprezza, con un buon cast (la bella voce di Elena Traversi). Il direttore canadese Boris Brott ha levigato dolcemente le sonorità dell’orchestra e del coro – molto buoni –, mentre la regia di Graham Vick sa sempre commentare la musica con grande rispetto.