La Pietà di Piovani

Due madri addolorate che piangono rispettivi figli, morti per cause opposte, cantano nei versi liberi di Vincenzo Cerami. Debutto al Teatro dell’Opera di Roma.

«Bellezza tanto antica e tanto nuova» – prendendo in prestito le celebri parole delle Confessioni di Sant’Agostino –, la sequenza liturgica latina Stabat Mater, testo classico della devozione medievale, emoziona e incanta ancora oggi col suo fascino, in un mondo pur così secolarizzato e apparentemente troppo distante da quello del XIII sec., in cui la tradizione colloca la composizione del poema attribuito a Jacopone da Todi.

Intreccio di commozione popolare e di solennità liturgica, di sacra rappresentazione e di meditazione biblica (l’incipit è chiaramente ispirato alla Passione secondo il Vangelo giovanneo: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre …» si legge in Gv 19,25), queste cullanti terzine di versi gregoriani hanno ispirato per secoli centinaia di musicisti di grande spessore, per composizioni d’ineffabile bellezza (notissime le versioni di Pergolesi, Scarlatti, Vivaldi, Rossini e molti altri).

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E nemmeno la sensibilità laica dei nostri giorni è riuscita a sfuggire al potenziale d’attrazione di questo testo, come dimostra l’applauditissima prima esecuzione assoluta de La Pietà: Stabat Mater per due voci femminili, voce recitante e orchestra di ieri sera al Teatro Costanzi dell’Opera di Roma, una cantata moderna in sei movimenti, composta da Nicola Piovani sul testo originale latino e su versi originali italiani dell’inseparabile socio storico Vincenzo Cerami.

In questa occasione, il compositore stesso ha debuttato anche come direttore dell’Orchestra del Teatro dell’Opera, mentre la voce recitante di Gigi Proietti, in un perfettissimo sincronismo ritmico con la partitura musicale, ha declamato i versi di Jacopone e di Cerami.

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L’eleganza lirica del soprano Maria Rita Combattelli e il calore afroamericano della voce soul di Amii Stewart hanno impersonato il lamento di due madri di provenienze estremamente differenti, ma accomunate da un’esperienza drammatica universale che le avvicina e le affratella: la morte di un figlio, espressione del dolore più grande che l’umanità possa sperimentare.

I versi di Cerami, con il loro ostentato scetticismo, sono graffianti e aggrediscono il Cielo con provocazioni del tipo «Dio ha creato l’universo senza lasciare all’uomo una traccia di Sé» oppure «Dio è muto», grida plurisecolari della crisi dell’uomo di fronte al mistero della sofferenza e della morte, ma sanno anche affondare lucidamente le unghie nel problema dell’ingiustizia umana distruttiva dell’umanità stessa: entrambi i figli seppelliti dalle rispettive madri sono infatti vittime dei perversi meccanismi attivati da un consorzio umano che ha smarrito il senso più profondo di un’esistenza buona e giusta.

La prima madre, infatti, una madame dello scintillante mondo occidentale, piange il figlio morto d’overdose, vittima delle illusorie e alienanti promesse di un gelido sistema opulento e consumista, con le sue abbaglianti «cornucopie in fotocopie». Al giovane, che muore gridando «mamma!», il pianto della madre risponde cantando «sangue mio!», quasi a voler purificare con le lacrime proprio quelle vene corrose dagli stupefacenti.

La seconda madre, una donna nera ma con «la voce pallida» per il dolore, piange il proprio bambino morto di fame tra le sue braccia, ridotto a piccolo scheletro in uno sperduto angolo del terzo mondo africano, vittima dell’ingrato squilibrio tra Nord e Sud del pianeta. E il bambino muore ripetendo «mama yè», richiamo martellante rivolto a una madre disperata, alla ricerca di un introvabile tozzo di pane per il figlio mentre canta «Dio dei vinti, dove sei?».

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Su entrambe, veglia un’altra Madre Desolata, che assume sotto la croce del Figlio – anch’Egli vittima di un’umanità incrostata di peccati – tutto questo dolore universale. Da lei i personaggi e il pubblico ricevono una parola finale, illuminata da un tanto atteso raggio di speranza: Quando corpus morietur fac ut animae donetur Paradisi gloria.

Su cotanto vibrare di emozioni aleggia discreta e senza sorprese la musica di Piovani, firma riconoscibilissima dalla prima all’ultima nota, forse fin troppo fedele a se stessa e all’inconfondibile stile delle canzoni di scena che ha meritato al musicista romano il riconoscimento del premio Oscar. Generosa benefattrice di questa nuova scommessa musicale, pur nella timidezza dell’invenzione melodica, è stata comunque la ricchezza dell’impasto sonoro ottenuto da un’orchestrazione brillante e ritmicamente frizzante, con un’ininterrotta staffetta di ben quattro percussionisti e un batterista.

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